Per terminare la carrellata delle fotografie dedicate ai Mondiali di sci alpino di Sankt Moritz 2017, ecco qualche scatto visto da me, e cioè dove il movimento impera, i riflessi ampliano, il lavoro nobilita e l'atmosfera dilaga.
Dal 6 al 19 febbraio 2017 si sono svolti a St. Moritz i campionati mondiali di sci alpino. Durante quel periodo mi sono state commissionate dalla redazione sportiva della Radiotelevisione svizzera le quattro gallery tematiche riportate sotto.
L'immagine di copertina di questa pagina l'ho invece dedicata a Beat Feuz, immortalato mentre sfrecciava verso l'oro in discesa libera con il tempo di 1:38,91.
Qualche scatto dell'aperitivo d'apertura della House of St Moritz avvenuto il 6 febbraio 2017. Consumazioni a prezzi corretti, animazioni video strepitose e sede di Eurosport, il tutto senza mancare in stile e con vista diretta sulla città.
E visto che questo post lo sto scrivendo a mondiali conclusi posso aggiungere che in questo luogo ho incontrato gente che già amo, un tavolino libero dove elaborare gli scatti della giornata bevendo Schümli pflumli l'ho sempre trovato, e che ammirare le lente animazioni proiettate sulla volta della House ascoltando gli idiomi del mondo è stata fra le esperienze più rilassanti che abbia mai vissuto.
In Engadina sto imparando i cavalli. Non che non ne abbia mai visti ma qui, essendo ovunque, ho il tempo per osservarli. Forza, eleganza, vitalità e controllo, ma soprattutto contorno. Sì perché dei cavalli se ne possono seguire i bordi: dei muscoli, del movimento, del sudore e del pelo, per non parlare di quelli dello sguardo. A volte una cosa sembra prendere vita solo nel momento in cui un cavallo la vede. L’ultima in ordine temporale è stata una pallina arancione in mezzo alla neve, apparsa durante lo Snow Polo World Cup di St. Moritz.
Lago ghiacciato, neve, sole, cavalli e gente in abbondanza. Decido di non capire per lasciarmi impressionare e così è stato. Per comodità e divertimento ho abbinato le squadre in campo a una caratteristica. E così Cartier è diventato il Tempo, Champagne Perrier-Jouët il Piacere, Maserati la Potenza e Badrutt’s Palace Hotel la Tradizione.
Dopo tre giorni di sfide il risultato ha visto trionfare su tutti il Tempo, seguito dalla Tradizione, dal Piacere e infine la Potenza. In una lettura più filosofica si potrebbe quindi dire che riappropriarsi del valore del tempo permetterebbe alla tradizione di restituire ad ognuno la propria identità, per far sì che abbandonarsi al piacere venga fatto con la giusta consapevolezza, concedendo ad anima e corpo il permesso di scoprire il proprio potere personale oltre i confini prestabiliti.
E niente, e pensare che c’è chi lo chiama semplicemente sport ;-).
Ho scelto di tramutare in opera artistica questo progetto perché credo molto nella trasformazione dell’ordinario in meraviglia: un’alchimia necessaria affinché la magia possa tornare a circolare nel quotidiano, rendendo ogni giorno non solo un fatto scontato ma soprattutto un’esperienza unica che val sempre la pena vivere.
Gli alberi. Grandi, possenti, vivi, detentori di segreti e veri e propri orologi del tempo che passa, poi ritorna, e infine se ne va. Il Teatro dei Fauni di Locarno ha deciso di tramutare in esperienza collettiva il tesoro racchiuso in questi esseri attraverso il progetto “Antenati con le radici”. Durante gli incontri, gratuiti e aperti a tutti, gli interessati si ritrovano ai piedi di un albero centenario della città per sentirne raccontare la storia, la provenienza, aneddoti, segreti e proprietà, il tutto accompagnato da un’azione scenica di teatro, danza e/o musica. Ai presenti viene inoltre consegnato un dossier contenente quanto udito, in modo che il prezioso sapere possa venir condiviso con altri: piccoli semi di rispetto e curiosità pronti a germogliare nelle coscienze altrui.
Da questa idea è nato il dipinto, in acrilico dim. cm ca. 40x55, su cui ho inoltre riportato un testo di Hermann Hessedel 1919 tratto da “Alberi”, che mi sembrava coerente con il messaggio dato dalla performance:
“Gli alberi sono santuari. Chi sa parlare con loro, chi li sa ascoltare, conosce la verità. Essi non predicano dottrine e precetti, predicano, incuranti del singolo, la legge primigenia della vita. Gli alberi hanno pensieri duraturi, di lungo respiro, tranquilli, come hanno una vita più lunga della nostra. Sono più saggi di noi finché non li ascoltiamo. Ma quando abbiamo imparato ad ascoltare gli alberi, allora proprio la brevità, la rapidità e la precipitazione infantile dei nostri pensieri acquistano una letizia incomparabile. Chi ha imparato ad ascoltare gli alberi, non desidera più essere un albero. Non desidera essere altro che quello che è. Questa è la patria. Questa è la felicità”.
Il presente lavoro è stato concepito come premio per l’edizione di #faigirarelacultura del 2016. Per partecipare all’edizione del 2017 clicca qui: potrai vincere, oltre a numerosissime opportunità e premi, una personale elaborazione fotografica del tuo progetto.
Nella fotografia la consegna del premio a Santuzza Oberholzer del Teatro dei Fauni di Locarno, attraverso la persona di Roberta Nicolò.
Ore 5:54 am, stazione di Mendrisio: la giornata inizia tra un esercito silenzioso di individui per cui questo è un orario ordinario. Seduti al proprio posto in principio si cercano i luoghi conosciuti come la casa di un amico, il nome di un paese, il ristorante in cui si è già stati, un monumento: dei punti che uniti definiscono la conoscenza e la presenza personale sul territorio. In seguito, quando i riferimenti verranno a mancare, se ne potranno creare di nuovi attraverso delle storie, come osservare nella notte i fari di un’auto bianca e ritrovarsi a pensare quale musica starà ascoltando. La luce del giorno avanza, rendendo il panorama più protettivo verso gli abitanti delle case con le finestre illuminate. E se la notte espone intimità, il bigliettaio non è da meno, rivelando al vagone l’identità di un passeggero.
Uomo di mezza età, senza biglietto, soldi e non abita in Svizzera. Il controllore, con tono tranquillo, forse rassegnato, esclama: “Non è divertente vero?”. Scrive qualche cosa sul bloc-notes e se ne va. Il clandestino appoggia la testa sul sedile e chiude gli occhi, come molti altri dei presenti.
Ad Arth-Goldau la quotidianità dei gesti irrompe nel vagone dei dormienti, obbligando i presenti a ricomporsi, seduti. Appaiono chiacchiere, giornali, cellulari, dispositivi elettronici, libri e persino aghi da maglia e filo i quali, tra un diritto e un rovescio, portano il convoglio in stazione centrale a Zurigo. La prima tappa termina alle ore 8:51; caffè, nussgipfel e un bretzel al prosciutto per il pranzo, prima di salire sul TGV delle 9.34, direzione Parigi.
Attraversare territori unisce culture, le quali si ritrovano per lunghi o brevi istanti a convivere su questa Babele viaggiante a 300 Km/h. A Bellinzona è salito lo svizzero tedesco, ad Arth-Goldau l’inglese, a Zurigo il francese, a Basilea il cinese e a Dijon l’arabo, e non è mancato nemmeno l’alfabeto universale: “Seduto a fianco a me c’è un uomo, cinese, dall’età indefinita. È bisnonno. Lo so perché mi ha mostrato la fotografia della sua famiglia. Parla solo cinese e a sorrisi: comunichiamo con quest’ultimo idioma”.
Alle 13.38 il treno entra a la Gare de Lyon, Parigi. Cinquanta minuti di tempo per scendere in metropolitana e spostarsi alla stazione di Paris Nord Est da dove, alle 15.13, partirà l’Eurostar. L’avvicinamento al mare non lo si percepisce. Distese di campi coltivati nascondono coste e gabbiani, portando in evidenza l’attesa della Manica. La si attraversa in 20 minuti, come il vecchio tunnel del San Gottardo; sapere di avere sopra di sé le Alpi o il mare cambia per un istante i pensieri, i quali vengono preso assorbiti dalla musica nelle cuffiette. Ad accogliere il convoglio in superficie in Inghilterra c’è subito il mare e alle ore 16:30 l’Eurostar entra puntuale in stazione St. Pancras Est. Dodici ore per raggiungere Londra in treno, e capire che se si resta con i piedi per terra, a volare sono le ore.
Articolo e fotografie pubblicate sul giornale Il Caffè domenica 22 gennaio 2017.
In inglese lo chiamano Hopscotch, mentre da noi è più conosciuto come il gioco del mondo o della campana. Questo quadro l'ho voluto chiamare così perché nel mio caso la campana è suonata davvero: il mondo chiama, devo andare. Via. Via di lì, da quel posto, ma solo perché mi è impossibile impacchettarlo e portarlo con me. Vuoi mettere? Esistono pochi luoghi simili, piccoli gioielli la cui luce arriva non solo lontano, ma soprattutto dove deve arrivare. Temevo il momento in cui avrei appoggiato il pennello, e invece mi son ritrovata a sorridere con gran serenità e pensare che nulla è più giusto di ciò che sta accadendo, compreso lasciare posti e persone a cui voglio bene, piccoli gioielli ognuno di loro. E niente, questa quindi è l'ultima opera realizzata a Ligornetto, in acrilico e pastelli a olio (novità dovuta all'influenza di una mostra di Basquiat appena visitata ;-)), nelle solite dimensioni di cm 310x160. La prossima la realizzerò in Engadina ma ci vorranno ancora un paio di mesetti, visto che l'atelier me lo daranno in febbraio ma fino al 20 sarò occupata con i mondiali di sci. E quindi bye bye Ligornetto: grazie per avermi permesso di accedere all'apertura a cui porta il grande formato, ma soprattutto grazie a coloro che mi hanno permesso di vivere tutto ciò: per sempre nel cuore.
Se poi volete fare un giro in tutta la galley, cliccate qui.
Riguardando la vecchia gallery ho notato che un anno fa in questo periodo dipingevo “stasi”. Non sapevo dove andare (pittoricamente parlando), come fare, a cosa ispirarmi, domandandomi sempre il solito perché: tarlo di ogni verità, soprattutto quando non ne hai. Insomma stavo attraversando uno di quei periodi dove la bonaccia ce l’hai dentro e ti guardi in giro in cerca di un appiglio, foss’anche Moby Dick.
Paragonando quel momento a oggi ho poi sorriso, perché in fin dei conti accade ancora ogni volta. Davvero non so dove andrò e cosa dipingerò, e l’ombra della stasi torna appena appoggio il pennello sul tavolo: "e adesso?". Tarlo poi continua a cercare di minare certezze, ma adesso se non altro lo fa da un’altra postazione che lo rende alleato: quando sono troppo indirizzata verso una meta già definita lo sento digrignare i denti affamato, così cerco di cambiare direzione.
Una cosa invece è rimasta sempre la stessa, ed è quella strana sensazione che mi prende lo stomaco quando sto per iniziare un lavoro: eppure guardando quell’immensa massa di tela bianca appesa alla parete a me sembra ogni volta di scorgerla davvero, l’ombra di quell'inafferrabile cetaceo di Moby Dick...
E niente, era solo per presentarvi l'ultimo nato (per tutta la Gallery vai qui):
Cogliere e accogliere, acrilico su tela, dimensioni cm 300x150
Li chiamano colpi di testa ma sarebbe più giusto dire colpi di pancia da tanto sono irrazionali; e poi chissà perché li chiamano colpi quando più che altro sono spinte. Tutto è iniziato con un “ma sì dai, comincio a guardarmi in giro se poi trovo è destino”. Cinque. Sono bastati cinque giorni ed eccomi lì a firmare due documenti: un nuovo contratto d’affitto e una disdetta d’appartamento.
Vado. Parto. Provo a viverla: lei, l’Engadina o meglio, come la chiamano là, l'Engiadina, con dentro il mio nome. Il tedesco? Ich heisse Giada und ich bin 42 Jahre alt ma, soprattutto, entschuldigung können Sie bitte langsam wiederholen? Che strana la vita: fino a poco tempo fa mai me ne sarei andata, mentre ora mai potrei restare senza prima provare questa esperienza. Comincio con un anno; magari meno o magari di più. Traslocherò in febbraio, mese in cui inizierò i corsi di integrazione di tedesco affiancati da quelli in inglese: non so, ho voglia di comunicare: ho almeno bisogno di poterlo fare.
Una camera nel Mendrisiotto la terrò in quanto conto di tornare almeno una volta al mese: a me piace stare qui ma per adesso non così, non più. Inoltre quando i cuori sono vicini non bisogna temere i chilometri di distanza, e sinceramente con la famiglia e gli amici meravigliosi che ho la fortuna di trovarmi accanto questa è l’ultima delle preoccupazioni; anzi, sarà persino più eclettico e divertente.
E niente, era solo per dire che se da febbraio passate da Sils Baselgia un caffè nel mio nuovo atelier ve lo offro volentieri. Se poi quando suonate il campanello non trovate nessuno prima di andarvene guardatevi attorno: probabilmente sarò lì in giro a cercare di catturare quella luce che dopo tanto ammirare, è riuscita davvero infine a catturare me.
Come ne “il re è nudo”: mi sento un po’ così, stolta e indegna, dopo aver letto le lodi e le recensioni allo spettacolo “Per te” di Daniele Finzi Pasca degli scorsi giorni. Eppure io tutta questa magnificenza non l’ho vista o meglio: l’ho vista ma non sentita. E non è da lui. Daniele ha quella straordinaria capacità di entrare di sottecchi dalla porta dei sensi e sconvolgere il disegno, gettando sul tavolo come fossero dadi le tue difese, il tuo contegno e le emozioni, lasciando vincere queste ultime. Sempre. Ma stavolta no.
Si parla di un giardino in cui però non sono riuscita ad entrare, quindi l’ho potuto osservare solo da fuori. È un giardino pieno di un dolore descritto, divenuto incolto, a tratti confuso, a volte (dio perdonami) kitsch, e persino un po’ (fustigatemi) noioso, ma questo probabilmente sarà perché di spettacoli ne ho visti molti e le ripetizioni si sa, impressionano meno. Julie. Julie c’è, ce n’è tanta, è ovunque, ma è raccontata, e l’effetto è minore. Un po’ come spiegare una barzelletta: l’incantesimo si spezza. È però da questa rottura con l’evocazione e l’estetica pura a cui ci ha abituati da cui si riesce a intravvede il vero dolore, la disperazione, il non riuscire a colmare quel vuoto attraversato ora da un vento impetuoso che tutto scompiglia e nulla lascia chetare, perché dopo certi amori vissuti e strappati ingiustamente all’altro dal destino non può che rimanere questo: un tentativo, un provare ad andare avanti, come si può e come si riesce, in una qualche maniera.
Forse il giardino attraverso cui ci è stata data la possibilità di sbirciare è più quello di Daniele che di Julie, dove armature, paure e debolezze hanno infine messo radici fra i tulipani. È vero, non esistono molti modi per definire la tristezza, ma forse l’hanno fatto apposta per lasciare ad ognuno la possibilità di creare la propria parola, come una che nel contempo voglia dire “rossetto da cui nasce il mondo”, “risata che scorre fra vallate per raggiungere il mare”, “stelle che anche nella nebbia brillano”, e molto altro, che solo lui sa, e come solo lui poteva insegnarci. E se proprio di nebbia dobbiamo parlare, Daniele disse che quando non si hanno più punti di riferimento e non si sa dove andare basta alzare gli occhi al cielo e prima o poi qualche cosa arriva… come la neve, giunta ieri.
Detto questo voglio comunque aggiungere che lo spettacolo è una buona piéce, ma tra quelle viste è quella che mi ha convinta meno. Ciò non toglie che per me Daniele resti il miglior coreografo poeta di sempre, il bene che gli voglio non si è minimamente scalfito e comunque e sempre sarò presente ad applaudire ogni suo giardino, perché come coltiva lui il nostro, solo in pochi riescono.
(foto tratta da www.finzipasca.com)
Sarà perché fu tra le prime votazioni a cui potei partecipare (e sostenni), perché allora (24 anni fa) sembrava una cosa così lontana, perché è il Gottardo (il SAN Gottardo), perché sopra si trovano le Alpi con il loro cielo, perché quel famoso 15 ottobre del 2010 davanti alla TV piansi come una bimba guardando le immagini della caduta dell'ultimo diaframma o insomma non so, ma passarci attraverso per la prima volta è stata un'emozione di quelle che hanno a che fare con le cose belle, che luccicano sempre un po', anche quando si trovano al centro della terra. #Gottardo #Gotthard #Alptransit #Gottardino
Degli spettacoli è bello anche l’arrivo, l’approccio, l’avvicinamento. Fiumane di gente che compaiono da ogni dove per lasciarsi colpire e meravigliare da ciò che accadrà. Un po’ come andare con coscienza verso il bello, concedendoselo. Come stavolta, dove per arrivare al Forum di Assago è stato sufficiente seguire il brulicare dell’emozione, ed eccoci là. Credo che a volte il prezzo del biglietto sia ripagato anche solo dall’essere avvolti da così tante persone attente, ascoltarne il respiro, i gridi di entusiasmo e l’applaudire all’unisono.
Varekai. In lingua gitana significa ovunque, e come sempre il Cirque du soleil è stato in grado di spargere con maestria quella cosa lì che chiamo stupore ma che non si ferma solo a quello, perché è uno stupore capace di andare avanti per giorni, per anni. Come ritrovarsi un domani ad abbinare un giallo a un verde e blu e ripensare alle strane creature che animavano il palco diventato fondo del mare; o sentire un passaggio di musica nomade e ritrovarsi là, fra corpi volanti e palloni illuminati; oppure ancora da un bagliore avere la necessità di allungare un braccio perché lei ha fatto così, con una grazia che forse solo gli angeli potrebbero. E infatti la storia di questo spettacolo parla proprio di un angelo caduto in un mondo straordinario e mai più ripartito perché ha incontrato l’amore, il sentimento che quella sera hanno respirato un po’ tutti ovunque, un po’ tutti varekai.
Leggo le notizie sul web e mi rendo conto di essere fuori dal mondo, eppure ci son decisamente dentro più qui che a casa. Nel mondo intendo, in quella palla abitata da miliardi di persone di culture diverse e in quella cosa talmente magnifica (a volte anche ingiusta e crudele, ok) da indurre gli uomini a cercare di immortalarla attraverso ciò che vien chiamato arte, o letteratura, filosofia, pensiero, o follia o insomma: quella cosa brulicante lì.
Oggi ho cominciato la giornata visitando l'esposizione Mexique al Gran Palais, la nazione per antonomasia in cui denuncia sociale e rivoluzione hanno influenzato l'espressione artistica del Paese (o il contrario). Frida Kahlo, Diego Rivera, JC Orotzco solo per citarne alcuni. Durante questa visita mi son soffermata spesso a pensare al senso del mio lavoro, dove non denuncio ma cerco piuttosto (credo) di promuovere una sorta di visione, quella che al cospetto del soggetto ti fa venir voglia di voltarti per vedere cosa si percepisce oltre, da lì: sia esso il Cervino, una carezza o un dolore. Serve? A me sì, se poi anche ad altri non posso che esserne felice.
E quindi? Nulla, è solo che leggendo quando accaduto oggi in Ticino mi son proprio sentita fuori dal mondo (anche se accade poi sempre) ma soprattutto (e qui svelo l'arcano), ad esser sinceri (era ora), sappiate che questa è tutta una tirata pseudo filosofica nata dal fatto che sto cenando in un ristorante italiano con camerieri asiatici, pizzaiolo turco e proprietario napoletano... e già su questo fatto potrei andare avanti ascrivere per ore ma l'errore è stato mio: ho iniziato a raccontare rispettando la cronologia dei fatti (e quindi che appena entrata abbia consultato internet), e non dell'interesse (o interessante). Se poi sapeste (oh davvero, se sapeste!) la composizione dei tavoli attorno a me, o la decorazione alle pareti, o la gente che sta passando fuori, o la musica di sottofondo (dai, questa ve la dico: è Hallelujah, capite?). Eeeeh va be', ora comando il decaffeinato all'asiatico che parla un lento francese (un francese abbracciato) e torno all'hotel che è qui vicino ma so ci impiegherò ore ad arrivarci perché poi mi perdo in pensieri e inquadrature che sicuramente farei e svelerei, se solo fossi qui... ma tanto domani torno, in tutti i sensi (?), e buonanotte ;-)
Son di quelle mostre che quando esci devi correre al bookshop per comperare un notes a prezzi assurdi solo perché il tuo è rimasto nella borsa giù sotto al guardaroba. E poi la penna, che per fortuna la barista ti presta senza indugio forse solo perché ne avrà letto sul volto l'urgenza; l'urgenza di dire quel qualche cosa che abbia un effetto simile alle apnee da tanto ossigeno tieni dentro, o respiri, o butti fuori non so, non l'ho ancora capito.
Amo la qualità, l'originalità, il coinvolgimento dei sensi o insomma: la meraviglia, l'effetto wow, la necessità. A volte la meraviglia può diventare anche una questione di necessità del fare che poi ti porta a quel bla bla bla del notes detto prima, il tutto magari accompagnato da un buon Morellino di Scansano servito nel Chiostro del Bramante a Roma. È infatti qui che si tiene la mostra "Love" appena visitata. Già, l'amore, come "L'arte è sempre una questione d'amore" è la frase con cui inizia il percorso (che consiglio vivamente di effettuare con l'audioguida)... e io in questo Chiostro mi sa resterò seduta ancora un po'... un bel po'... con un bel po' di love addosso #chiostrolove
Lo spettacolo andato in scena lunedì 3 ottobre allo Studio Foce di Lugano parla di un viaggio, il viaggio che ognuno di noi inesorabilmente intraprende nell’arco della vita verso, o lontano, da sé. È una ricerca, un tentativo, un modo per cercare di rimanere fedeli a se stessi in una società frenetica, improntata sull’apparire, sul consumo, sulla menzogna e sul giudizio costante. E Tom Struyf lo fa attraverso le tensioni.
Sul palco tensioni corporee fanno a volte da sfondo altre da supporto a testimonianze rilasciate da personaggi pubblici: parole asettiche in cui a volte si riesce a intravvedere la luce del dubbio, lieve, nascosta seppur presente.
Nel suo continuo vagare nell’incertezza, il protagonista della pièce arriverà fino all’altro capo del mondo per capire che la soluzione per sopravvivere la si trova nelle piccole cose: nell’aiuto spontaneo ricevuto da un estraneo, in un bambino, nella risata di un’amica, ma soprattutto nella necessità di ritrovare la fede verso il genere umano. Infatti Tom, grazie all’aiuto di Nelle Hens, attraverso prestazioni fisiche combinate ci ricorda di non aver paura, che a volte è necessario avvicinarsi all’altro e sapersi fidare, ma tanto, per cercare di non cadere.
FIT Festival Internazionale del Teatro 2016 – Another great year for fishing – tensioni corporee
Questo istante ha un po' quel sapore qui: di quelle cose intense che finiscono, di quelle che magari c'è disordine e non sono propriamente linde ma solo perché vissute, adoperate, date. Di quelle che è un po' come quando entri in una stanza dopo che qualcuno vi ha litigato solo che qui non ci ha litigato nessuno ma è un po' una cosa così: te la senti addosso, attorno.
Nei cliché forse ora salirebbe una folata di vento per sollevare le carte al suolo ma qui non c'è bisogno: si muove già tutto ed è un po' come disse quello là: il naufragar m'è dolce in questo mare... Comunque solo ora (giuro) vedo il nesso fra Leopardi... e il Pardo... come a dire che insomma: godo, in questo dare... #Locarno69
Il post di stasera lo scrivo ora, da qua, che non è il solito luogo in cui mi immergo a fine giornata ma il silenzio è lo stesso, giuro. Il mojito c'è e mi sta tenendo compagnia in questo attimo in cui spero non smetta di piovere; perché piove, e tanto. Peccato non riuscire a condividere ciò che scriverò fra poco, quando arrotolerò i pantaloni, toglierò le scarpe e a piedi nudi mi incamminerò verso casa. E non sarà perché non voglio, è che certe storie appaiono solo se le calpesti; si compongono quando le attraversi. Esistono per chi in quell'istante le percorre, o le scrive, o le vive, non so, certe cose non le so mai, ma va bene così, non importa... Ora vado, e buona notte
Ecco, son quelle foto che in mezzo ad altre ti chiamano, ma esattamente non è che pronuncino il tuo nome per la prima volta, semplicemente sono le uniche che mentre scorri l'album della giornata ti stanno ancora guardando dritto negli occhi: sono foto in attesa, interrotte. È come quando sei lì in mezzo ad altri in attesa del volto noto e scorgi un cavo, dei piedi e lo sfondo, e la composizione appare. È che poi entro nella bolla della meraviglia e starei lì ore a chiacchierare con l'armonia, a ridere e scherzare prendendoci pure un po' in giro, scambiandoci quelle confidenze che alla fine sanno sempre un po' di me, di te, e di tutti noi.
Ero indecisa se scrivere questo post in riva al lago o in terrazza, ma poi la voglia di un mojito ha vinto su tutto... che poi non era nemmeno quello, andava bene così, qui e basta. La tovaglia è in cotone giallo sbiadito, e laddove c'era una toppa vi hanno cucito sopra una farfalla; capite? Una farfalla rosa. Son quelle cose semplici attorno alle quali si racchiudono storie, come le mani di colei o colui che l'ha cucita... anzi no, che hanno cucito: sbirciando sugli altri tavoli ne scorgo altre, apparentemente ferme. Nel frattempo la padrona del locale bagna i fiori, un pipistrello attraversa il cono di luce di un lampione, un tedesco canticchia e dietro me sento pronunciare la parola "privacy"; incredibile quante cose possano accadere mentre alcune cose si sciolgono, compreso il ghiaccio nel bicchiere...
Schiena appoggiata a piastrelle di cemento ricoperte dal calore del giorno, quasi non lo volessero lasciare andare, e mani intrecciate dietro la nuca come si vedeva ai tempi, nei film. Un piede che accarezza il cane, l'altro che se allungo un po' forse davvero a quella nuvola arriva. E il perdersi a seguire il volo degli uccelli, spostare lo sguardo per creare composizioni nuove fra ombrellone/fili di ferro e cirrocumuli, chiudere un occhio poi l'altro, a ritmi diversi, solo per vedere l'effetto che fa. E il silenzio, che poi non è silenzio vero ma insomma: un qualche cosa che da lì parte, o arriva, non so. Dovrebbero dedicargli un canale alla TV a questa cosa qui... sì sì, un cielo così andrebbe trasmesso ovunque, sempre, gratis... #caneggiolife