Coltivare sogni grandi come piccoli frutti

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Questa più che una storia imprenditoriale sembra una fiaba, anche se a parer mio lo è davvero. L’inizio potrebbe corrispondere a “c’era una volta, in un paesino di montagna divenuto più luogo di transito che di residenza, un uomo a cui apparve in sogno una mora”, e non sarebbe nemmeno poi così distante dalla realtà. 

Sto parlando di Nicolò Paganini dell’azienda Piccoli Frutti di Campascio, frazione di Brusio in Valposchiavo, il quale passando davanti a un enorme roveto un giorno ebbe l’illuminazione. Figlio di commercianti la sua strada l'avrebbe portato altrove, ma guardando quelle splendide more selvatiche capì che quella era terra idonea per la coltivazione di frutti di bosco, ed ebbe ragione.

Poco sole, terreno ricco, acqua dal lago sovrastante: occorreva solo trovare lo spazio in cui inserire le coltivazioni. E qui potremmo aggiungere un altro capitolo al racconto fantastico. “In quel villaggio per guardare l’orizzonte occorreva alzare gli occhi oltre le cime delle montagne; sul fondo rocce e fiume, nel mezzo il bosco. A monte e a valle paesi troppo lontani e, poco distante, case abbandonate o di vacanza con giardini selvatici o soffocati dall’incuria”. Ed ecco un'altra intuizione: usare quelle parcelle per la coltura.

Oggi l’azienda vanta 9 ettari di piantagioni suddivisi su 70 appezzamenti, composti prevalentemente da giardini o terrazzamenti ripristinati. Attorno a case diroccate o di vacanza si possono ora trovare piante di lamponi, mirtilli, ribes, fragole, more, prugne, mele e ciliegie. Considerate inoltre l’impatto estetico per Campascio, divenuto ora più ordinato, colorato e vivo. Avere così tante parcelle separate è sicuramente un impegno per l’azienda, ma dal punto di vista della protezione del raccolto si è rivelato un vantaggio, sempre in balia di agenti atmosferici inaspettati o malattie nocive per la pianta. 

La raccolta dei prodotti dura da giugno a settembre. Visto che le persone impiegate in questo periodo sono soprattutto casalinghe, gli orari di lavoro sono stati adattati alle necessità familiari, come finire un po’ prima a mezzogiorno per poter tornare a casa a preparare il pranzo. E non ditemi che anche questo non potrebbe diventare un ulteriore bel paragrafo incantato. Ma non è finita qua.

La frutta raccolta è venduta sia fresca che elaborata, per la cui trasformazione occorreva un nuovo laboratorio. In questi casi spesso la formula consiste in terreno + prefabbricato ma, ovvio, così non è stato. Il cuore da coltivatore di Nicolò l'ha portato a scegliere la ristrutturazione di una costruzione fatiscente nel nucleo piuttosto che togliere ulteriore verde alla valle. Oggi al pian terreno si trova l’azienda e ai piani superiori un bed&breakfast delizioso con un nome che parla da sé: Coltiviamo Sogni.

Già, perché io credo che se si ha abbastanza coraggio per lasciare affondare i piedi nella terra prima o poi se ne sentirà pulsare il battito, e tutto ciò che nascerà da questo incontro potranno essere solo grandi gesti d’amore anche se racchiusi nel piccolo formato di un frutto. D'altronde la delicatezza necessaria per raccogliere un lampone non è forse la stessa che si utilizzerebbe per afferrare un sogno? Nicolò lo ammette, non è stato sempre facile ma si sa: così non fosse stato non avrebbe potuto trattarsi di una favola a lieto fine.

P.S.1: Fatevi un giro nel loro sito, vedrete che le possibilità offerte sono molte e tutte estremamente interessanti, perché oltre a Nicolò Paganini c’è anche l'azienda vitivinicola La Perla di Marco Triacca. 

P.S.2: questo post è a titolo gratuito. Ci tenevo a scriverlo perché mi hanno molto colpita l'attenzione, la cura, l'affetto e l'impatto positivo delle scelte prese non solo guardando verso la propria attività ma considerando la comunità intera. Inoltre se lo meritano davvero e a consigliarvelo vado sul sicuro ;-).

P.S.3: le foto sono state fatte fuori stagione, quindi manca tutta l'apoteosi fruttifera.

 

Carne y arena: dalla realtà virtuale a quella personale

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Carne y arena è un allestimento plurisensoriale ideato dal premio Oscar Alejandro Gonzàlez Iñárritu, regista di 21 grammi, Babel, Birdman e Revenan solo per citarne alcuni, attualmente visibile presso la Fondazione Prada di Milano. I biglietti vengono venduti via web con ingresso definito sia nel giorno che nell’orario, in quanto si accede all’esperienza uno per volta. La chiamano esperienza e di un’esperienza effettivamente si tratta: un viaggio virtuale che mi ha portato infine a toccare con più consapevolezza la quotidianità.

L’installazione tratta il tema dell’esodo dai paesi latinoamericani verso gli Stati Uniti, che interessa ogni anno circa 250 milioni di persone. Per una decina di minuti, muniti di visore di realtà virtuale, cuffie audio, a piedi nudi sulla sabbia rocciosa in un ambiente in cui potersi muovere liberamente, si può vivere ciò che viene definito cinema dipinto: un modo per diventare protagonisti del racconto non solo entrando a far parte della scena, ma potendo agire da performer scegliendone il personale punto di vista.

Il momento rappresentato tratta l’incontro di alcuni poliziotti di frontiera con un gruppo di migranti nel bel mezzo del deserto. Voci, volti, elicotteri, fucili, cespugli, cani e, fra loro, lo spettatore. Voltarsi e trovarsi faccia a faccia con persone spaventate, arrabbiate, l’atmosfera del nulla arido, i rumori e poter camminare assieme alla scena sono un’esperienza decisamente nuova e intensa. Ma se l’intento del progetto era quello di porre il pubblico all’interno del racconto abbattendo i confini della bidimensionalità, personalmente credo di non essermi mai sentita così distante. Leggere, guardare un film o ascoltare un racconto mi permettono, attraverso l’empatia, l’immaginazione e le sensazioni evocate, di entrare in contatto con la storia. Esserci invece sbattuta nel mezzo, presente fisicamente anche se in una realtà effimera, mi ha fatto sentire completamente estranea ai fatti.

Loro erano accanto a me, vicini, ma inutile fingere di capire, di provare gli stessi turbamenti, di lasciarsi trasportare sulle ali di un racconto che non potrà mai essere il nostro. Mi trovavo nel deserto insieme a loro ma i miei piedi non erano ricoperti di piaghe e vesciche per aver camminato giorni nel deserto. Nel mio paese non rischio tutti giorni la vita, non mi minacciano costantemente, non ho parenti uccisi da gang, non sono la dodicesima figlia di famiglie che lavorano nei campi per ottenere in cambio un pugno di riso, non ho figli che mi sono stati inviati a casa fatti a pezzettini perché qualcuno ha ritenuto gli avessi fatto un torto, non ho passato settimane in container stipati di gente, o in celle frigorifere, o subito violenze fisiche dagli stessi sfruttatori per cui dovrò lavorare ancora 20 anni per far sì che non se la prendano con i miei cari. In pratica non ho alle spalle la stessa miseria che spinge queste persone a intraprendere quel viaggio e nel cuore la medesima speranza di un futuro che possa essere anche solo un poco migliore del niente da cui sono scappati.

Più mi guardavo attorno più mi chiedevo cosa ci facessi lì. Più sentivo sotto i piedi quella sabbia portata da chissà quale cava più mi sentivo fuori luogo. Più sentivo l’aria soffiata dai ventilatori più mi sembrava tutto così ridicolo e falso, come d’altronde era. È stato allora però che ho sentito emergere prepotentemente un’altra storia, ed è quella in cui sono io la protagonista, quella che mi sono costruita e che cerco di affrontare ogni giorno con i mezzi di cui dispongo.

Bizzarro come partecipare a un’esperienza virtuale abbia reso più manifesto il presente, e prestargli la giusta attenzione non dovrebbe essere solo un dovere ma soprattutto un gesto di rispetto verso coloro che il deserto lo devono affrontare tutti i giorni, qualsiasi esso sia. E quando il grande regista deciderà di far apparire sul mio display la scritta off vorrei poter dire di aver vissuto anche io un'esperienza plurisensoriale, che molto probabilmente non vincerà alcun premio Oscar ma quantomeno sarà stata reale, vera, sentita, intensa, toccata, respirata, consumata ma, soprattutto, mia. 

Carne y arena, fino al 15 gennaio 2018 presso la Fondazione Prada di Milano, prenotazione obbligatoria.

Foto Emmanuel Lubezki

Erode il Grande al Festival Culturale Origen

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Arrivare alle 17 al passo dello Julier offre un'anteprima allo spettacolo straordinaria grazie al panorama autunnale, dorato come la torre. L’atmosfera respirata all’interno del teatro prima dell’evento è rilassata, conviviale e intima, tipica degli ambienti in cui ogni dettaglio è curato compresa la giusta quantità di posti a sedere. Alle 18 i bicchieri di vino vengono posati e il pubblico prende posto attorno all’atrio del piano terra.

Il palco scende lento dal soffitto al ritmo di un tempo che capiremo mai passato. Le catene scorrono nel meccanismo portando il cielo in terra come fosse una maledizione; il vuoto lasciato al centro è ora colmato dal protagonista degli eventi: il potere. 

Erode siede sul trono la cui contesa è causa del processo voluto. Gli accusati sono le mogli Doris e Mariamne con i relativi figli avuti da esse Antipatro ed Aristobulo. La sorella Salomè è con lui a ricordargli che il dominio non accetta misericordia, nemmeno se al banco degli imputati siede la famiglia.

Il re della Giudea processa senza vergogna, come senza vergogna guarda negli occhi ogni singola persona del pubblico camminando a bordo palco. E ha ragione: chi siamo noi per giudicarlo? Il giudizio non è forse la prima forma di malignità? La risposta arriva dal sole del tramonto che, incurante degli accadimenti, entra dalle finestre illuminando Erode come chiunque altro, a ricordarci che tutti siamo simili nella luce come nell’ombra.

E così le ombre dell’anima prendono forma creando danze fra accuse e difese, mosse al ritmo di paure, severità, seduzioni, rifiuti e castighi. Vengono calpestate umiltà e scatenate forze che soltanto l’innocenza riesce a brandire, in un ultimo atto di sfida con cui le madri proveranno a difendere i propri figli. Ma il mantello indossato da Erode, intessuto dalle loro stesse ingenuità e crudeltà, lo proteggerà infine dall’unica possibilità che gli imputati avranno di sopravvivere: provare amore.

Una volta eseguita la sentenza il re torna a sedersi sul trono, stanco; i morti non hanno bisogno di essere visti dall’alto, i morti stanno a terra perché è lì che la ferocia li ha voluti anche se a prenderseli sarà il cielo. Il palco può ora iniziare la sua lenta ascesa per consegnare all’eternità il gesto dell’uomo.

Il vuoto lasciato al centro del teatro viene però presto occupato dal pieno di Erode; è un pieno denso, cercato, accettato e compiuto. Il re della Giudea passa ancora una volta a guardare negli occhi le persone presenti prima di uscire nella notte. 

Gli applausi iniziano a scorrere come le catene che hanno sollevato fatti ma non colpe. In seguito il pubblico si alza per uscire e raggiungere la stessa porta varcata da Erode, libero di agire là fuori ieri come oggi, capace di esistere nel giorno come nella notte, ma soprattutto di prendere forma anche in un piccolo vuoto, sicuramente presente in ognuno di noi. 

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Herodes è l’ultima pièce presentata dal Festival Culturale Origen presso il teatro al passo dello Julier, per la regia di Giovanni Netzer; fino al 20 ottobre 2017. www.origen.ch

Credits Foto Spettacolo: BenjaminHofer

 

Intervista rilasciata alla rivista Cooperazione

Cosa significa per me vivere appieno?

"Vivere appieno per me è un respiro che attraversa non solo i polmoni ma tutto il corpo, al limite fra il piacere e il dolore, a cui è impossibile opporre resistenza ma da cui ci si può solo lasciare invadere. È una condizione tanto arricchente quanto stancante, difficile da mantenere a lungo ma persino impensabile starne lontani per troppo tempo".

E la passione?

"La passione secondo me non la si può relegare a un singolo segmento dellapropria vita come uno sport o un hobby, ma è il volume su cui si decide di sintonizzare la propria esistenza. È una questione di intensità, è il ritmo delle pulsazioni, enfatizza ogni istante in bene o in male: è l’essenza della vita stessa su cui si appoggia tutto il resto".

Queste ed altre domande (e risposte), sull'intervista rilasciata a Cooperazione il 3 ottobre 2017. Leggi l'articolo.

Fotografia di Sandro Mahler

Fotografia di Sandro Mahler

Sapore di te al Sanatorium Stella Alpina

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Un lago, un hotel, 160 anni, anime e corpi; tanti corpi, e anime. Questi gli ingredienti principali utilizzati dalla compagnia Theater Jetzt per mettere in scena lo spettacolo Sanatorium Stella Alpina ambientato presso l'Hotel Le Prese, proprio il luogo di cui se ne narrano le vicende. 

Dodici sono stati i momenti rappresentati distribuiti fra biblioteca, mansarda, giardino, bagni, cantina, la camera 66 e altri, attraverso cui il pubblico si è dovuto spostare per assistere a monologhi mai banali e tutt’ora attuali. Perché anche se si salpa sul Titanic o si rivive La montagna incantata di Thomas Mann, del lasciare andare o del partire, del cercare di ritrovarsi o della fatica impiegata per non voler ascoltare ci si ammala ancora oggi.

L’ideatore, regista e interprete Oliver Kühn è riuscito a costruire uno spettacolo divertente, ironico, toccante, reale, a volte cinico ma soprattutto stratificato, lasciando cioè la possibilità ad ogni spettatore di scegliere il proprio livello di lettura, dalla profondità variabile come il lago di Poschiavo.

Non per nulla l’ho trovata una pièce liquida, sia per l'aria lacustre respirata nelle vicende, sia per il tipo di carburante necessario alle turbine portatrici di ricchezza e dissidi, ma principalmente per quelle storie che si sono appoggiate sulla superficie per attraversare oceani alla ricerca di una nuova vita, che da quell'ambiente non son volute uscire per non dover affrontare il passare del tempo o che la disperazione è riuscita a tramutare in whisky. 

Consiglio quindi di tuffarsi per una sera in quest’esperienza fatta di leggende, verità, tradizioni, progresso, affari, paure, discipline, solitudini, colloqui letterari, boost time, fughe e speranze, in racconti ambientati attorno a uno specchio d’acqua che alla fine non rimanda solo l’immagine di un Hotel, ma di tutti noi.

Sanatorium Stella Alpina, di Theater Jetzt, in scena fino al 13 ottobre 2017 presso l’Hotel Le Prese di Poschiavo. Spettacolo bilingue tedesco e italiano, con relative traduzioni.

Articolo pubblicato su il Bernina il 3 ottobre 2017.

CALL OF ACTION: partecipa al progetto Ritratti narrativi

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CALL OF ACTION CONCLUSA

Ringrazio chiunque abbia mostrato interesse per il progetto e operato per la diffusione del messaggio. La partecipazione è stata numerosa e sono molto felice dell'entusiasmo raccolto. A breve inizierò con gli invii, da cui in seguito produrrò i primi Ritratti narrativi che naturalmente pubblicherò. Quindi.... stay tuned!


Post originale del 26 settembre 2017:

Cari tutti, ho bisogno di voi: ho deciso di aprire il progetto di trasmissione orale a chiunque, la qual cosa mi sembra tra l'altro coerente con l'idea che si cela dietro il progetto stesso. Come sapete (se del caso non preoccupatevi, lo ripeto adesso) il mio concetto artistico si basa nello stimolare nel ricevente la propria storia, un proprio racconto, attraverso immagini.

Descrizione concetto: circondati da notizie, informazioni, messaggi pubblicitari, programmi televisivi passatempo e da sterili esposizioni personali, la trasmissione verbale può corrispondere al mezzo in grado di offrire gli sbocchi necessari affinché il contatto e il dialogo umano possano reinsediarsi. Porsi in ascolto davanti a un’opera significa lasciare che le note di una storia altrui entrino in comunicazione con quanto vissuto personalmente. Trasmettere significa consegnare ad altri i propri valori, modelli ed esperienze; un intero patrimonio culturale che, se accolto, può solo crescere e moltiplicarsi attraverso il tempo. 

Mi chiedevo se foste disposti a partecipare attivamente al progetto. Mi piacerebbe poter inserire il vostro numero di telefono nell’elenco delle persone a cui inviare immagini (fotografiche o pittoriche, non più di una alla settimana). Non mi serve descriviate ciò che vi è rappresentato, ma ciò che la visione della stessa sia in grado di evocare del vostro vissuto. Pensate che bello: un territorio, un evento o un quadro raccontato attraverso ciò che lo stesso stimola in voi. Un po’ come se un sasso (il fatto) venisse lanciato nel lago (l'umanità), il quale attraverso il rimbalzo (l'ascolto) sia ingrado di generare tanti anelli (ognuno di voi nella sua straordinaria unicità) quante sono le persone unite nel loro quotidiano vivere (qualsiasi esso sia). Le tracce audio ricevute le userei per creare video o scritti composti da umanità differenti unite dall’elemento generante: l'esistenza.

Se siete d’accordo vi chiedo quindi per cortesia di mandare un messaggio whattsapp allo 0041793136659 con il vostro nome e cognome (o ciò che volete), così da poterlo inserire in rubrica. Il numero sarà attivo unicamente per questo genere di attività, non verrà usato come chat, comunicazioni telefoniche, men che meno come gruppo ma, soprattutto, non lo cederei mai a terzi.

Come funzionerebbe? Quando ricevete l’immagine prendetevi pure il tempo necessario per osservarla (massimo due giorni), poi quando e se (non sentitevi obbligati) sentirete salire in superficie una parte della vostra storia, mandatemela attraverso messaggio vocale (sempre via WhatsApp). Le registrazioni resteranno anonime; inviandomele ne acconsentirete l'uso personale per fini creativi.

Grazie sin d'ora a coloro che vorranno partecipare al progetto, se poi vi dovesse venire in mente qualcuno a cui potrebbe piacere l'idea grazie anche per diffondere le mie intenzioni. Per qualsiasi ulteriori domanda, non esitate a scrivermi.

AGGIORNAMENTO:

CALLTOACTION #RITRATTINARRATIVI #PARTE2. Lo ammetto, non me l'aspettavo. Molte persone stanno rispondendo alla chiamata, esibendo un atto di fiducia e di apertura di cui sarò riconoscente a vita, soprattutto se penso che la maggior parte non mi conosce nemmeno. Mi sono accorta però di dover dare maggiori informazioni, anche perché già il concetto in sé non è tra i più semplici. Cominciamo quindi con: che scopo ha tutto ciò?

L'intento del progetto consiste nel ridare importanza alla propria storia vissuta e non solo mostrata. Uso il metodo delle registrazioni vocali come simbolo della trasmissione orale, dove si consegnava un intero bagaglio culturale fatto di esperienze, rituali, cultura e storia, in cui non solo si comunicava ma si trasmetteva all'altro la propria straordinaria e unica complessità. Whatsapp l'ho scelto per simboleggiare i mezzi usati oggi, secondo me in parte responsabili di questo impoverimento comunicativo. Inoltre la scusa di raccontare di sé permette alle persone di avvicinarsi a qualsiasi fatto.

Ad esempio quando chiedo a qualcuno di raccontarmi un quadro astratto spesso mi sento rispondere che non ne hanno le competenze, se invece chiedo di condividere con me un ricordo evocato dall'opera, tutti (almeno fino ad ora) si pongono in ascolto senza giudizio e timore alcuno, riescono ad avvicinarsi: nulla è più certo di ciò che è già avvenuto in passato, dà sicurezza, nel bene e nel male. Non da ultimo, lasciando che siano i vostri vissuti personali a raccontare l'elemento generante, è un po' come riuscire a dare un volto al vento, che non si vede se non attraverso ciò che smuove.

Vi aspetto, secondo me sarà davvero un bel viaggio da percorrere tutti assieme.

Passeggiando per Wopart

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Di quelle passeggiate che hai voglia di goderti tranquillamente, a passo lento, girando il volto di qua e di là; osservando, godendo. È questo il ritmo tenuto visitando WopArt, la fiera del disegno delle opere su carta e fotografia che si tiene a Lugano e chiuderà i battenti questa sera. Ripercorrendo con il pensiero quei corridoi mi vien da dire che:

  • La tensione del centro
  • Il centro tende e intende
  • I passepartout sono numeri primi, divisibili sono per se stessi
  • Gli uccelli in volo seguono rotte calligrafiche
  • La bellezza di pronunciare sottovoce Bleistift auf Papier
  • La complessa armonia del caos rilassa
  • Il potere del bianco
  • Il potere del nero
  • Il potere del rosso, del blu, del tratto, della macchia, della crosta, del pieno e del vuoto, del dettaglio e dell’insieme
  • La difficoltà dell’attenzione
  • Della foto, del disegno e dello schizzo
  • L’ombra della parola sta nella sua censura
  • Sul libro, sulla pagina, e sull’insieme di pagine che non fanno un libro
  • L’integrità del taglio
  • L’estrapolazione dal contesto ne crea un altro
  • Il fascino del piè di pagina fotografico
  • L’oro
  • Le trasparenze
  • L’odore dei bordi
  • La voglia di seguirli con il dito, i bordi
  • Di strappi e di pieghe
  • Le righine della carta da pacco
  • Sovrapporre avvicina
  • Del gesto, del corpo, e della sua assenza
  • Il senso a volte ne modifica il principio

Workshop di progettazione urbana/umana

L’architettura è la volontà dell’epoca tradotta nello spazio, disse Ludwig Mies Van der Rohe; è che per tradurre occorre saper ascoltare ciottoli e fiumi, dalla più scontata abitudine al più audace desiderio, dalle dinamiche comunitarie ad ogni singola individualità.

Questo è lo spirito che aleggia fra i banchi del workshop di progettazione urbana giunto ormai alla sua terza edizione. Compito di quest'anno cercare, attraverso proposte di intervento, di ridare al comune di Rovio una piazza abitata. Il gruppo è composto prevalentemente da architetti e studenti giunti da ogni parte d'Italia e del Ticino, sapientemente capitanati dall'architetto Licia Lamanuzzi, più me, che avevo bisogno di un nuovo punto di vista per sollevare il mondo e sbirciare cosa si nasconde sotto.

E così di seguito, in un post che aggiornerò giorno per giorno, proporrò un elenco di ciò che avrò imparato durante la giornata.

Day 1 - Ritrovo e incontro con la popolazione:

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  • Se chiedi la gente risponde
  • Se ascolti la gente racconta
  • I paesi sono visti, scritti, immaginati e ce li hai sotto, sopra, attorno e dentro
  • Il confine è una relazione
  • Le persone sono i luoghi che abitano e che vorrebbero abitare
  • Riqualificare significa riconsegnare
  • Il pedone vince laddove ne viene incentivata la presenza
  • Anche i garzoni disegnano
  • Delimitare limiti limita l’apprendimento degli stessi 
  • L'educazione non può essere delegata a un recinto
  • Su alcune panchine si scrive l’infotraffico
  • I bambini vedono cosa potrebbe diventare, mentre gli anziani cosa potrebbe venire a mancare
  • Condividere riduce la dispersione 
  • L’obiettivo è un incastro
  • I giovani sono belli
  • Coinvolgere ne accentua il senso

Day 2 - Primi schizzi e conferenze pubbliche:

  • Le interferenze non si annullano, si trattano
  • Una costruzione risuona nella coscienza umana  di ognuno
  • Se riesci a immaginare qualche cosa, quella cosa ti attraversa 
  • Ascoltare il bacio fra strada e piazza
  • Assecondare non è ricalcare
  • Non abbiamo bisogno di recinti per sentirci liberi

Dall'architetto Martino Pedrozzi ho imparato che:

  • Si abitava la semplicità
  • Le cascine sono embrioni dello spazio urbano
  • Le rovine possono diventare un omaggio a chi le ha vissute
  • L'insieme delle vie formano un unico spazio
  • Sovrapporre salva fiumi e vigneti
  • Senza togliere o portare nasce l'ordine dello spostare
  • Per separare a volte occorre unire
  • Il bello appaga anche se non se ne conosce la storia

Dagli architetti Federico de Molfetta e Hope Strode:

  • C'è bisogno di paesaggio
  • Non è necessario nascondere, ma creare relazioni
  • Le complessità vanno mantenute, occorre solo calibrarle
  • L'immaginazione è ciò con cui ci confrontiamo, e ridare la possibilità di immaginare è importante
  • Le masse vegetali sono volumi; il linguaggio architettonico è uguale, a cambire è il fattore tempo
  • La natura tende alla complessità, l'architettura al deperimento
  • Una spina dorsale vegetale è sorretta da ambienti
  • La manutenzione di uno spazio fa parte della struttura

Day 3 - Sviluppo progetti e conferenze parte seconda:

La giornata di oggi invece mi ha portato a comprendere che:

  • La progettazione urbanistica consiste nel creare un disegno dello spazio capace di trasportare il comfort domestico dalla scala privata a quella pubblica (Arch. Bjorn Klingenberg)

Dall’ingegnere, architetto e architetto paesaggista Cristina Petralla ho imparato che:

  • La soluzione è trovare un giusto modo per raggiungere il futuro
  • Il paesaggio è un’invenzione umana dei tempi recenti; prima natura e mare uccidevano, non si diceva “che bel paesaggio”
  • Per capire cosa fare occorre comprendere le parti
  • Un paesaggio è ciò che rimane; è ciò che noi lasciamo
  • Uno spazio pubblico è l’insieme del contesto
  • Un buon governo porta ad avere un buon paesaggio, il cui primo passo consiste nell’offrire sicurezza
  • In un progetto occorre inserire anche l’incertezza; non si è mai sicuri di come la propria opera verrà vissuta e utilizzata
  • La totalità del territorio è un insieme di sistemi, a cui va dato ad ognuno la possibilità di svilupparsi senza diventare preponderante
  • Il progresso non è solo un avanzare, ma a volte consiste nel ripensare il passato e tornare indietro
  • Il paesaggio è un’opera collettiva, siamo noi a comporlo

Dall’architetto Stefano Moor invece ho capito che:

  • La città è il punto culminante fra natura e cultura
  • Insegnare non è nient’altro che continuare a fare ciò che si fa tutti i giorni
  • Paragonare serve a capire
  • L’architettura dovrebbe dare la risposta più giusta a una problematica
  • Esistono ombre inutili
  • Si può dare una risposta al luogo attraverso una struttura statica
  • Non bisogna avere paura o vergognarsi di ripetere le stesse cose
  • Per creare il vuoto occorre densificare l’attorno
  • Si cerca di dare risposte che diano un senso a tutto il territorio
  • La buona architettura si può imparare, mentre il pensiero etico va guidato e sviluppato
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Day 4 - ProgetTIAMO il futuro:

Oggi mi sono data alla creazione di un video ispirato e dedicato alla progettazione urbana.

ProgetTIAMO

Ecco il suolo, su cui son solo
su quei percorsi, rivivo i miei trascorsi
ma una trasformazione, porta alla reazione.

Sulla piazza, appare una ragazza
percorro il tragitto, vengo trafitto
intraprendo il cammino, e mi avvicino.

Dai legami, nascon "mi ami?"
uniamo la storia, progettiamo il futuro
"certo che ti amo, ne sono sicuro".

Day 5 - Parole della piazza:

Cosa vorrebbero vedere i bambini nella piazza del loro paese? Uno squalo, qualche foca, un trampolino ma anche sculture e quadri. Le risposte nel video riassunto della quinta giornata del WPURovio2017 mixato a qualche foto del passato e del presente, avendo già nei desideri rappresentato il futuro.

Una cena capace di scatenare l'effetto Edward Norton

Ieri sera ho vissuto un’esperienza culinaria che definirei da Fight Club. Avete in mente la scena di Edward Norton dell'uomo Ikea, quella in cui si guarda in giro per l’appartamento e appaiono i mobili con le descrizioni? Ecco: uguale! Appena il piatto veniva appoggiato sul tavolo gli odori scatenavano un catalogo di apparizioni: mangiavo e nella mia mente apparivano cose.

Per lasciare che lo chef ci potesse offrire la sua ambientazione preferita, io e Beatrice abbiamo optato per la versione del menù Sperimentazione a mano libera; sei portate (esiste anche quella da nove) in cui non capivi nemmeno se ti trovavi nel reparto salotti o camera da letto, men che meno ciò che dovevi montare. Eh già, perché come ogni buon prodotto Ikea era necessario assemblarselo da sé, e in più senza istruzioni da seguire.

Cioè, come unire latte di mandorla amara, cavolo rosso, caviale e midollo affumicato? Ma soprattutto: con cosa incastrarli assieme? Considerato che gli unici strumenti di cui disponevamo erano occhi, naso e palato, abbiamo usato quelli; alla fine non solo l’assemblaggio è risultato solido e ben strutturato, ma potevi persino riempirlo con le tue cose come ricordi, evocazioni, immagini e chiacchiere perché giuro: erano sapori contenitori, dentro ci potevi mettere una storia!

Invece coi cappelletti di formaggio caprino al tè di pomodoro e verbena odorosa l’esperienza è stata oserei dire da sofà. Della serie che il ripieno era liquido in modo che potesse scoppiare in bocca per unirsi al brodo profumato l’esatto istante in cui veniva inghiottito. Capite? Qui non si è trattato di costruire qualche cosa che stesse su, ma che l'unione avvenisse nel preciso istante in cui i sensi si lasciavano comodamente sprofondare nello stomaco.

Poi è vero che in Fight Club si parla di tutt’altro e che insomma per regola non se ne dovrebbe parlare per ben due volte ma insomma, secondo me merita (enne bi: non prendo nulla a consigliarvelo). E niente: il ristorante è il Materia a Cernobbio per il cui link è sufficiente cliccare qua (tra l’altro: personale giovane, squisito, competente e gentile; carta dei vini interessante con possibilità abbinamento calice/portata). Ora aggiungo qualche foto fatta col cellulare (sì, quella cosa croccantina che si vede adagiata sulla spuma è cervella impanata) e, per chi non se la ricordasse (possibile?), a fondo pagina trovate la sequenza di Norton, affinché da memorabile scena possa anche per voi trasformarsi in un'indelebile cena. E buon viaggio.

Quando una fotografia si apre

E quindi le fotografie possiedono una data di scadenza. Non nel senso che passato un certo periodo è necessario buttarle, è solo che dopo una tale data finalmente si mostrano. Un po' come fossero un calendario dell'avvento autonomo; trovi una finestrella aperta quando decidono loro. Altrimenti non si spiega come mai ciò che scatto oggi, il giorno mese anno dopo acquista un significato diverso. E sai che regalo venire invasi da quella cosa lì che è come rivivere un istante di cui però non avevi né coscienza né memoria, o almeno non in quel modo.

La foto di oggi è una di quelle: appena l'ho vista ho capito cosa ho realmente immortalato. Non il primo d'agosto, un uomo, i falò e a chi mancano, il caldo sprigionato o il silenzio che regnava no, ho voluto fotografare me. E niente, era solo per dire che a volte riguardo le immagini e queste, come nulla fosse, semplicemente appaiono. Così poi accade che le vedo davvero: le vedo da dentro.

Scatto preso durante la festa nazionale del primo d'agosto 2017 a Silvaplana

Scatto preso durante la festa nazionale del primo d'agosto 2017 a Silvaplana

A proposito di Alberto e di realtà

Oggi è una di quelle giornate in cui vedi il trailer di un film e pensi era ora, poi volti lo sguardo e strizzi l'occhio ai tre manifesti usati dalla Fondazione Beyeler nel 2009 per pubblicizzare la sua mostra (che a ripensarci mi vengono ancora le palpitazioni). Così mi è venuta voglia di andare a rileggere i suoi Scritti (edizioni Abscondita) ma alla fine non è che li abbia poi sfogliati molto, colpa di La mia realtà (risposta inviata a un'inchiesta condotta da Pierre Volboudt) che mi ha inchiodata subito lì, secca, di quelle cose che ora capisci in modo diverso e probabilmente anche solo forse in parte ma vicino almeno.

L'avrò riletta 10 volte prima di sentire il bisogno di interpretarla: tutti dovrebbero venirne a conoscenza. E niente, spero non si offenda nessuno tantomeno lui, ma oggi è appunto una giornata così, di quelle in cui ho cercato di "tentare - coi mezzi che mi sono propri - di vedere meglio, di capire meglio quel che mi circonda; di capire meglio per essere più libero" di Alberto Giacometti. 

Certo, io faccio pittura e scultura e questo da sempre, dalla prima volta che ho disegnato o dipinto, per mordere la realtà, per difendermi, per nutrirmi, per crescere; crescere per meglio difendermi, per meglio attaccare, per fare più presa, per avanzare il più possibile su tutti i piani, in tutte le direzioni, per difendermi contro la fame, contro il freddo, contro la morte, per essere il più libero possibile; il più libero possibile per tentare - coi mezzi che oggi mi sono propri - di vedere meglio, di capire meglio quel che mi circonda; di capire meglio per essere più libero, il più forte possibile, per spendere, per spendermi il più possibile in ciò che faccio, per correre la mia avventura, per scoprire nuovi mondi, per combattere la mia guerra, per piacere? per la gioia? della guerra, per il piacere di vincere e di perdere.

La mia realtà, di Alberto Giacometti.

Effetto sospeso engadinese

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È appurato: in Engadina esistono le giornate sospese, giuro! Fluttuano in giro fino a quando ti capita di attraversarle; è che te ne rendi conto solo quando accade, non è infatti possibile né prevederle né andarle a cercare.

Ad esempio un giorno ero seduta al computer quando improvvisamente ho percepito profumo di pino cembro e udito scoiattoli giocare. Sai come quando dall’odore di bucato capisci esserci dei panni stesi nei paraggi? Uguale! Ho persino sentito l’attimo appeso sventolare, così ho chiuso gli occhi e ci ho affondato il volto: era morbidissimo, e sapeva davvero di buono.

Un’altra volta invece stavo camminando per un sentiero quando qualche cosa mi è scoppiato sull’orecchio, un plick da bolla di sapone da cui sono scaturite voci e abbracci: Bun dì, Alègra e anche odore di pane ma di quello buono, che quando mangi ti sembra di stare vicino a un camino quando fuori nevica forte.

Settimana scorsa poi ho letto su un giornale del caffè sospeso a Napoli, dove una persona ne paga uno in più lasciandolo a disposizione di chi non può permetterselo. Allora ho pensato che probabilmente è una cosa simile, dove qualcuno vive un momento in più utilizzabile da coloro che forse sono un po’ imprigionati nei loro pensieri oppure non son capaci di ascoltare appieno l’attorno.

Adesso quando esco e sono in mezzo al bosco, vicino al lago, sento odore di pioggia o di neve o il sole sulla pelle o la sera vedo quella luce lì che sembra sempre così vicina eppure è così lontana ma soprattutto sottolinea il presente, cerco di assorbire doppiamente l’istante in modo da lasciarne uno libero di staccarsi e diventare sospeso, iniziare a volare lontano e chissà, riuscire davvero a colpire inaspettatamente qualcuno, intento a passare di là, magari proprio adesso... plick.

Dipinti che nascono così - 7 cani di loto

Ci sono dipinti che cerchi, altri che provochi, altri in cui devi scavare a fondo o di trasformare quel passaggio proprio non sai come fare. Altri invece te li ritrovi lì, ti svegli la mattina e l'hai già davanti agli occhi; magari non tutto, ma il resto è nelle mani.

Porti fuori il cane, passeggi con calma tanto sai non esserci fretta, o almeno non più. La tela era già stesa da tempo, in attesa. Non c'è nemmeno stato bisogno di scegliere i colori, era già tutto al suo posto anche se non ancora impresso. Non so, ma questa volta trasmettere mi ha regalato una sensazione nuova, appartenente alle cose che nascono da sé, quasi fossero state giuste, e va bene anche così. 

Titolo: 7 cani di loto - Acrilico su tela dim. cm 200x100

Di Patti Smith e l'Hahnensee

Questa mattina volevo scrivere del libro appena terminato di Patti Smith, Just Kids, ma dovevo ancora portare fuori il cane. Così ho pensato di andare al concorso ippico a vedere cavalli, eleganza, potenza e sangue e tornare subito a casa, ma alla fine al concorso non ci sono mai arrivata, malgrado Horses sia stato il suo primo album. Tutto perché ho deciso di andare in su anche se decidere è già troppo, direi piuttosto che è accaduto; ho cambiato strada, mollato il cane e via, a seguire la nebbia immersa nell’odore di pioggia. 

Il ritmo era quello al limite dell’apnea, il mio modo per creare materiale da buttare nella fornace, perché quando si apre la bocca del fuoco si possono fare solo due cose: nutrire o chiudere, e così ho nutrito. Solitamente lo faccio accettando pensieri, riducendoli in frammenti pronti ad alimentare quella cosa lì che poi almeno per fortuna un po’ si attenua. Un po’; a volte. 

E mentre camminavo mi capitava di cogliere nuove immagini da smembrare e utilizzare: osservare per cogliere, nutrire per assecondare. Non occorre fare altro, è un meccanismo che va avanti da sé, se lo si ammette. E insomma, con questo volevo dire che non era Coney Island ma l’Hahnensee, non indossavo un impermeabile verde Kelly di seta gommata ma una giacca Mammut, non era New York degli anni ’70-’80 ma l’Engadina di oggi, ma il senso di quel bruciare credo di averlo compreso: occorre vivere per viverlo, camminando, soli, nell'incertezza della meta, avendo fede nel percorso... tutto lì... è l'arte.

P.S.1: che poi mi sa che alla fine la recensione un pochino l'ho fatta...

P.S.2: il video è stato girato all'Hahnensee in Engadina, il testo è Just Kids di Patti Smith, la voce la mia, il cane Artù.

L'Apocalisse al passo dello Julier: una Babilonia a 2'284 metri

Per arrivare a una torre occorre salire, sempre. Stavolta lo si è dovuto fare anche per un Passo: lo Julier. Che poi questa non è proprio una torre normale: è Babele, laddove l’uomo cercò di elevarsi a Dio e venne poi diviso. Quindi giusto l'altro ieri l’umanità è stata separata dal verbo, mentre oggi noi siamo qui uniti malgrado si senta parlare tedesco, italiano e romancio. 

La struttura in legno rosso è magnifica, davvero. Grandi sono le vetrate che permettono alla cultura di dialogare con la natura come se non lo facessero già; di parlare tra loro, intendo. Il palco è al centro, sospeso sulla hall d’entrata con il pubblico tutto attorno dal primo al quarto piano come in un’arena. E in mezzo ci sta lei: l’Apocalisse di Gion Antoni Derungs. 

Diciassette sono le voci disposte a cerchio, di cui una narrante. Abiti neri e pelli ora spettrali, ora evanescenti, ora infuocate, ora gelide e ora accoglienti grazie al gioco di luci. E basta. Che è molto più di tutto: è l’essenziale che enfatizza.

E così ti ritrovi ad ascoltare quella cosa capace di penetrarti sotto pelle e ti accorgi che il canto su quel palco ha cominciato a prendere forma. E ride, e ti disprezza, ed è Satana, ma poi anche dolcezza e decadenza, e mucche e campanacci che vengono da fuori. Poi distruzione e salvezza e cavallette e fari di auto e stelle anche se son le lampadine riflesse nelle immense vetrate. E angeli e cori e puttane e doglie e morte e lutto e pianto e speranza e alla fine si spegne tutto e noi rimaniamo lì così, nel buio e nel silenzio, senza sapere cosa fare. 

Sarà durato un minuto. Un minuto intenso sospeso sulle ceneri del mondo conosciuto, di Babilonia. Ma poi è accaduto. Quello spazio vuoto ha cominciato a risucchiarci dal petto ogni parola sbagliata, mai espressa, nascosta, persa, dimenticata, odiata e lacerante conservata, lasciandoci senza più differenze di pronuncia o significato ma con l’unico senso comune a tutti: quello della vita. 

Quindi stasera Babele è riuscita davvero a spezzare l’incantesimo avvicinando realtà culturali diverse. 
Quindi stasera Babele è risorta. 
Quindi stasera Babele siamo noi. 

Applausi.

E fu così che la nebbia proveniente dallo Julier iniziò improvvisamente a roteare attorno alla torre in una spirale che al cielo, stavolta, riuscì ad arrivare…

 

Grosse Apocalypse, Origen Festival Cultural 2017

Kinga Glyk al Festival da Jazz di San Moritz

Fuori odore di pioggia, dentro profumo di sangue. Dentro. Al Dracula-Club di San Moritz stasera si sta dentro, dentro il Jazz. Ed è un Jazz rosso, come la bandiera del Paese da cui proviene, la Polonia, come la giacca che indossa e gli anni che ha: 20. Kinga Głyk suona il basso o meglio lo splende, mentre ci appende. Perché è così che ci sentiamo mentre ci prende, ci immerge e ci strizza, ci sbatte, attacca e infine ci lascia lì così: stesi. 

Stesi nella tempesta ma saldamente attaccati al suo sound, su cui veniamo issati. E così prendiamo il largo; noi vele in balia di un Achab buono e tenace, in un viaggio alla ricerca della verità che alla fine scorgiamo. Kinga il mostro è riuscita a mostrarcelo davvero, proprio nell’istante in cui ha scagliato la fiocina del suo sguardo fatto di concreta freschezza. Adesso Moby Dick giace al suolo in una pozza rossa e lei vi è seduta accanto, a gambe incrociate, in un delicato assolo. È il momento del bis. 

Ora il profumo del sangue è ovunque e noi ci siamo dentro. Dentro.

Bianca e Fernando all'Opera di St. Moritz

Vi è mai capitato di sentirvi risucchiare all’interno di un flusso sanguigno mentre state osservando uno spettacolo? A me sì, ieri, durante la prova generale dell’Opera di Bellini “Bianca e Fernando”, svoltasi presso la deliziosa sala spettacoli in stile neo-barocco dell’Hotel Reine Victoria di St. Moritz. 

Il palco non è in fondo alla sala, è tutt’attorno. Le persone non sono solo da una parte, sono ovunque. E così anche gli interpreti, che un secondo ti ritrovi dietro la schiena, un altro seduto accanto e un altro ancora laggiù in fondo, sulla scala. E tu che fai? Giri la testa di qui, la volti di là, guardi un po’ in su e infine FLUP, ci finisci dentro, in quel corpo intendo.

Così passi in un istante dalle corde vocali di Fernando, il tenore, ad attraversare le braccia della direttrice d’orchesta Olga Pavlu che mamma mia, svolazzano e accarezzano e inveiscono nell’aria come uno stormo d’uccelli mentre si prepara per volare altrove, al caldo. Ed è un viaggio che attraversa stomaco, gambe, piedi, schiena e spalle di soprani, bassi, tenori, mezzisoprani, orchestra eccetera e tu sei lì, nel mezzo, a fluire di qua e di là finché al caldo ci arrivi per davvero. Ed è tanto. Intensissimo. Ti domandi dove potresti essere visto che attorno non vedi nulla però dopo un po' lo senti: batte. E batte forte. Quel forte delle persone che non si arrendono, che resistono nell’ingiustizia, che sanno soffrire e amare; è un battere di quelli giusti.

Sei nel cuore del Duca. È il cuore di Carlo ma alla fine capisci essere anche il tuo. Ti ritrovi quindi nel posto da cui ora potresti tornare al mondo ma in cui non esistono maniglie o serrature da girare; per uscire occorre solo fare una cosa: ascoltare, e sentire, sentire e ascoltare… ascoltare… e sentire… sentire…. e ascoltare… “Al contento aprite il cor. Oggi al mondo Ciel mostrò. Che virtù perir non può, che virtù perir non può, che virtù perir non può, perir non può, perir non puòòòòòòòòò.”

Fine. Applausi. Anche te. Che ce l’hai fatta. Ad aprire quella porta. E a uscire.

Lawrence Carroll in mostra al Museo Vincenzo Vela di Ligornetto

Credo di aver vissuto un’esperienza proustiana, di quelle cose stile Longtemps, je me suis couché dans le Temps, anche se il titolo della mostra di Lawrence Carroll, ora al Museo Vincenzo Vela di Ligornetto fino al 15 ottobre 2017, è “I have longed to move away”.

Appunti presi dal mio personale calepino:

  • Strati di interventi come gocce di pensieri, strati d’animo sfuggiti al flusso dell’esistenza.
  • Il suo è un carpe diem denso, lento, afferrato nella sua totalità, dove l’effimero diventa fugace eternità.
  • È come guardare in profondità attraverso ciò che è sparso in superficie, alla mutevole luce di albe e tramonti.

Oltre i confini si trova Borderline: acrilico su tela dim. cm 310 x 160

In questo lavoro ho voluto indagare le linee di confine, entro le quali puoi sentirti una volta invaso, una protetto, creare uno spazio in cui accogliere o restarvi prigioniero. Le puoi erigere ma possono non risultare efficaci, oppure le vorresti abbattere ma non sai da dove iniziare.
Possono fungere da argini, per non disperdersi, altre invece da barriere, entro le quali però non riesci più a perderti. Poi ci sono i confini dello sguardo, dell'attorno, della notte, delle parole, delle sensazione e della pelle.

Andare oltre, questo è il mio Borderline.


Acrilico su tela dim. cm 310x160, marzo 2017, #silsatelier.