Precipitare è un avvicinarsi

Nettuno. Il pianeta azzurro. Il tutto, nel nulla, è un nero che non sottrae ma somma; fuochi sparsi all’orizzonte, sospesi ma attratti. Un coro. Saturno: una voce. La terra: una storia. Una storia: scritta. L’atmosfera, l’ossigeno, il volare che è un cadere che è un tornare che è un avvicinarsi che è un ricominciare.

L’Oceano, Europa, Alpi, odori, volo d’uccelli, canti, bosco, caldo, afa, Mendrisio, tetti, Pipino, finestra, tenda, campanella tibetana, erbe aromatiche. Sedia vuota, lampada, fattura, tavolo, sottobicchiere, bianco, portatile, tastiera, mani, braccia, pensiero, sudore, pelle, circolazione, cellule, respiro. Respiro; brivido. Sensazione; battito. Un punto: Nettuno. E avanti così: ricominciare.

Punto e virgola

Virgola da tempo non era felice. Troppe le prese in giro dei compagni, molte le umiliazioni fino a quel giorno subite: “Sei solo una pausa breve”, si sentiva ripetere, “Sei un intervallo buono unicamente a rallentare”, le dicevano in continuazione. Nel cuore di Virgola cominciò a nascere il desiderio di diventare altro, qualche cosa di secondo lei più grande, più elevato. Decise quindi di porre dei cambiamenti radicali alla sua vita. Fece dei corsi, eseguì numerosi esercizi, si impegnò molto e si rimise a studiare, fino a quando fu finalmente nominata Apostrofo. Felice di poter vedere coloro che la schernivano dall’alto, Virgola si posizionò subito nel posto lasciato libero da un’elisione. “Assassina”, sentì però gridare, “Sei crudele”, le arrivò come accusa. Ma come, pensò, ora sono un Apostrofo, che male posso aver mai fatto? “Fai cadere vocali o le tronchi, e fai sparire cose attraverso l’aferesi”, le dissero i maligni.

Avevano ragione anche questa volta, si disse Virgola, ma forse una soluzione a tutto ciò esisteva. Senza perdersi d’animo si rimise a studiare, seguì un rigidissimo allenamento e si impose grandi sacrifici fino a quando riuscì a sdoppiarsi, momento in cui poté finalmente conseguire il diploma di Virgolette. Ora non faccio più del male a nessuno, concluse soddisfatta, prima di andare a posizionarsi all’interno del testo. Ma l’illusione di pace ebbe vita breve, alcuni minuti dopo infatti voci nemiche cominciarono a risuonare all’interno del paragrafo: “Copiona copiona”, sentì cantilenare “Di tuo non hai proprio nulla”, aggiunsero. All’inizio non capì, ma poi comprese: al suo interno ora solo citazioni o discorsi altrui, e a lei cosa restava? Dove era andata a finire la sua identità? Virgola questa volta si sentì molto demoralizzata: tutta questa fatica per ritrovarsi al punto di partenza.

Fu proprio un Punto, in quel momento, a passare di lì: “Virgola Cara, cosa c’è che non va?”, disse egli con quella nobiltà d’animo che lo contraddistingueva e che obbligava tutti a rivolgersi a lui iniziando in maiuscolo. “Ho fatto tanto per cambiare, ma sono stati sforzi vani”, disse ella esponendogli la situazione. Punto l’ascoltò con attenzione e quando il racconto terminò le disse: “Virgola, tu sei perfetta così, e il tuo ruolo è importantissimo. Permetti alle persone di riprendere fiato, inoltre puoi decidere se far diventare un numero enorme o molto piccolo, senza dimenticare il ritmo che puoi dare a un paragrafo. Sei come un direttore d’orchestra, ma da sola puoi fare ben poco. Ascolta le parole che ti risuonano attorno, entra in loro, conoscile, e vedrai che diventerà per te semplice e naturale capire dove posizionarti affinché possa nascere una melodia meravigliosa. Devi imparare a fidarti, cominciando da me”.

Punto con quelle parole mise fine a un periodo complesso per Virgola, la quale finalmente tornò a sorridere: “Son contento se sei contenta”, disse lui, prima di baciarla. E fu così che tempo dopo per i testi cominciarono ad apparire tanti piccoli punto e virgola piuttosto indisciplinati ma d’altronde si sa, a saperli usare veramente bene sono in pochi; molto in pochi; anzi pochissimi; appunto.

Festival Jazz Ascona, per #faigirarelacultura

Festival Jazz Ascona. Ritmo e improvvisazione. Questo è il jazz. Ritmo e improvvisazione. Come la nostra serata. Ascona, il lago, il luogo, il lento passare per vie ancora deserte, il lento fluire di un domani che ancora non c’è. (Una voce: Summertime and the livin’is easy). Ciotoli rossi, strada in discesa, aperitivo al porto, cuscini verdi e un’ape che sappia indicare la via. (Partono le note di un pianoforte). Il cielo grigio si fonde con il lago, che è il luogo, che è il lieve passare del tempo, scandito dal movimento del capo. (Fish are jumpin’ and the cotton is high).

La musica cambia, i racconti si intrecciano, i cappelli aumentano, le luci echeggiano, il cielo si apre. (Contrabbasso e piatti: I Know why I Waited). Un piede tiene il tempo, che non è più lento, che fluisce attraverso desideri che non sanno più aspettare. (Know why I’ve been blue). Un caffè shakerato con ghiaccio a pezzi, con pezzi passati e cannuccia nera, la notte è nera, la voce è d’oro e le dita rullano su quello che c’è. (Due sax, un palco, un pubblico, e noi). Il cielo trema, il cielo è a trame, il cielo sovrasta, il cielo improvvisa (I’ve been waiting each day). Il pianista si alza, le braccia e anche noi, la pioggia è sulla schiena, la pelle ringrazia, la pelle che resta, la pelle che chiama. (Assolo di tromba). Il ritmo incalza, il pensiero è fisso, le mani applaudono, il cuore è. (For someone exactly like you).

Una voce dal pubblico sale improvvisa, sale decisa, sale che graffia, che morde, che accoglie, che plasma ritorna e va via. (L’atmosfera esplode, la gente è con lei). Il lago spumeggia, il cielo gorgheggia, le luci contengono, i fischi richiamano, i musicisti ritornano, è il bis. (Sax sax sex, piano, basso, batteria e tromba guest da New Orleans). Sul palco si ride, sul palco si dice, sul palco si è dentro, sul palco si è fuori, portano noi dentro, portano noi fuori. (For someone exactly like you). Il temporale si placa, il buio è tenace, il ritmo che tace, Ascona è il luogo, il luogo è ieri, il fluire è lento e accompagna al rientro. (For someone exactly like you). L’automobile si ferma, la portiera si chiude, la casa è deserta, il vento accarezza, la doccia rinfresca, il letto è la notte che ora qui c’è. For someone exatly like you. For someone exatly like you.

Recensione pubblicata su Timmagazine

Quella cosa lì

L'ultima pennellata di luce proprio dove Segantini provò a catturarla, e vi morì. Eppure lei, con quel suo fare cafone e un po' arrogante, continua imperterrita a sbattere in faccia a noi umani quella cosa lì che uno può anche cercare di immortalare o spiegare, ma poi vi rinuncia. Appare, si mette in posa, ti ammalia e attende. Tu la ammiri, la osservi, la ascolti e ti lasci invadere, finché credi di averla capita e colta. A quel punto trattieni il respiro, prendi ciò che ti serve e lei "paff", scompare. È che a questo punto uno dovrebbe descrivere un ricordo ma, in quanto tale, brilla soprattutto della luce di chi lo possiede, non per merito di quella stramaledetta sfuggevole caleidoscopica ipnotica e solenne cosa lì...

Milletrentatre

E ecco, o meglio, e eccomi, di nuovo. Stamane sono partita sull’onda del cip cip e universo e connessione e meraviglia e splendore e ma che bella la vita ed effettivamente, dopo appena dieci minuti, di cose speciali ne erano già successe mille: gocce come nella notte di San Lorenzo, salti di pesci come in Free Willy, personaggi fiabeschi come in Tim Burton, rondini come a San Francesco, personaggi veri come in Fellini, pioggia e sole e sole e pioggia come quando il diavolo sta facendo l’amore. Poi siamo arrivati al Lej da Staz: Artù si è fiondato nell’acqua alla ricerca di pesci e io mi sono sdraiata sul pontile alla ricerca e basta.

Qui, dopo appena quindici minuti di nulla, l’ho sentito arrivare: cosa speciale milleuno. Si trattava della figurina numero diciotto del mio personalissimo album dell’umanità: Lo Sportivo con la esse maiuscola. Passo leggero, perfettamente simmetrico, di quelli che consumano esattamente la stessa zona della scarpa sia del piede destro che sinistro. Coordinazione del movimento/respiro/battito cardiaco in perfetto rapporto aureo. Abbigliamento super tecnologico che nemmeno Samantha Cristoforetti ma in questo caso ci sta, se non altro li usa, e non per andare al bar. Arriva, si ferma, “bib” sull’orologio da polso (o facente funzione), braccia alzate per respirare e via con mezz’ora di stretching ed esercizi degni del più moderno Gioca Jouer, al termine dei quali si spoglia e ed entra in acqua. Fisico perfetto, nulla da dire, di quelli che anche a cercare bene non ci trovi più nemmeno il ricordo di una raclette o di un profiteroles, per non parlare di quegli aperitivi che vanno a finire in ciocca allegra: tutta roba debellata da tempo. È stato solo quando si è immerso però che ho avuto la prova fosse effettivamente un essere umano, in quanto gli è sfuggito all’autocontrollo un leggero “aargh” ma insomma, otto gradi fuori, vento, pioggerella e quindici gradi nell’acqua avrebbero piegato qualsiasi Robocop. Si è fatto la quantità di bracciate preventivamente calcolate e inserite nel programma e poi, una volta uscito, si è asciugato con un pezzetto di roba blu grande al massimo venti centimetri per lato, che gli è bastato appoggiare sulla tartaruga per ritrovarsi risucchiata in un nanosecondo anche l’acqua che aveva depositata in mezzo alle dita dei piedi. Incredibile. Poi si è rivestito, due o tre esercizietti di routine e “bib”, il meccanismo da polso è ripartito e con esso anche il suo passo di corsa. Chissà se si è accorto dell’attorno ma in fin dei conti, alla figurina numero diciotto, dell’attorno non gliene deve fregare un fico secco di nulla, altrimenti mi si banalizzerebbe il cliché Emoticon wink.

Bene, ora tocca a noi. “Dai Artù andiamo, che comincio ad avere freddo”. Nulla. Faccia rivolta sul fondo del lago a cercare i pesci. “Artù, sei già dentro da mezz’ora, andiamo”. Nulla punto zero. “Ffffffffffffffff”, il rumore del sacchettino con dentro i pezzi di wienerli ha scaturito lo stesso effetto che avrebbe su un cane vegano: indifferenza totale. “Ok io vado”, e vado davvero. Quando ormai non lo vedo più perché il lago è terminato e sono passati più di dieci minuti decido di tornare indietro. Ebbene, la paura di rimanere solo, dell’abbandono o quelle cose che ti insegnano durante i corsi di obbedienza sono tutte balle: lui era ancora lì pacifico a giocare coi suoi pescetti. “Artù porca miseria, è passata un’ora, andiamo!”. Aria. E adesso che faccio? L’unica cosa possibile mannaggia a te: mi sono spogliata e sono entrata nell’acqua. Lo ammetto, in quel momento ho usato un linguaggio un po’ colorito ma gente, con la pelle d’oca che m’è venuta potevo farmi lo chignon! Artù poi deve aver pensato volessi giocare e mi si è fiondato addosso a balzi e tuffi: linguaggio coloratissimissimo ma se non altro sono riuscita ad afferrarlo. Ok, usciamo, ed ora? Ho provato ad asciugarmi con la giacca in Goretex ma ha fatto l’effetto della tenda da doccia gelata quando ti si appiccica addosso: ho optato quindi per le calze, tanto i piedi non li sentivo più. Mi rivesto e via, intirizzita e divertita e con ancora un cane al seguito, anche se solo perché abbrancato e legato.

Dopo cinque minuti di cammino poi è avvenuta la cosa speciale numero milletrenta: mi si è aperta la terza corsia e improvvisamente un flusso di sangue ringalluzzito si è fiondato su e giù per il corpo in una corsa mozzafiato degna del prossimo Fast & Furious, dove globuli rosso Ferrari e bianchi Space Shuttle si sono portati via spiaccicati sui parabrezza anni di tossine, colesterolo, acido urico e quelle cose che a volte uno ha e non si capisce il perché (…). 
Ora però che siamo a casa un bel bagno caldo non me lo leva nessuno: e fanno milletrentuno, e metto pure su un po’ di musica jazz, e milletrentadue, e magari mi ci porto pure un bel bicchiere di vino, e milletrentatre…

Cose speciali

La sveglia suona alle 6.18 anche in vacanza, ma alle 5.44 già cercavo di capire che tempo facesse dalla luce che entrava dal soggiorno. Sono convinta che le cose speciali accadano al mattino. Non lo fanno per abitudine o per antipatia verso i piumoni, ma così facendo ti danno il tempo di lasciar sedimentare l’evento, permettendoti di gustartelo per tutta la giornata e lasciandoti però libero di dormire. Altrimenti sai che notti. Insonni, come spesso mi accade, ma in questo caso loro non c’entrano.

Il tempo è grigio, i gradi 6. Una chiazza di azzurro qua e là si scorge, fra il silenzio del mattino e la prima tapparella che si alza. Gli uccelli loro cantano, ma qui non smettono mai. Artù dorme sul divano e spera di essersi mimetizzato a sufficienza con la coperta da sfuggirmi quando sarà ora di uscire. È un cane pigro, a lui delle cose speciali che accadono al mattino non gliene frega niente. Ora andremo al Lej da Staz, che a quest’ora di cose speciali ne accadono a manciate. Oggi è il primo giorno d’estate e guarda, un raggio di sole è apparso. Dai Artù andiamo, che il concerto è appena iniziato…

4 valigie

Valigia del fare: pronta.
Valigia dell'essere: anche.
Valigia dell'essere peloso: pure.
Valigia delle idee: idem.
Ok, domani si parte: yeppa :-)

I primi passi di "i"

In questa istantanea scattata per caso sono stati immortalati i primi passi di "i" attraverso il mondo, eseguiti sotto lo sguardo sapiente e protettivo di mamma "Y". Ora non resta che attendere che la piccola "i" capisca di poter essere anche punto esclamativo, e spiccare così finalmente il volo...

World Press Photo 15 a Monte Carasso, per #faigirarelacultura

World Press Photo 15: più che un odore è un tunnel

È la terza volta che mi approccio al computer per scrivere il pezzo, ed è la terza volta che mi fermo a guardare lo schermo senza che alcun pensiero riesca a concretizzarsi. Eppure è sufficiente andare a fare una passeggiata, guidare, sedermi a tavola o prima di assopirmi, e il pezzo fluisce da sé. Me lo racconto, lo ascolto, lo vedo e lo vivo, ma di scriverlo non se ne parla proprio. Tutto è iniziato il 3 giugno scorso, all’inaugurazione del World Press Photo 15, presso Spazio Reale a Monte Carasso. Una serata come tante, un’esposizione di fotografie come se ne vedono ogni giorno sui giornali, eppure qualche cosa di diverso è accaduto. Quelle immagini sono in grado di bloccarti lì davanti ma non solo con lo sguardo, con tutto ciò che sei: dalle viscere ai pensieri, al passato al destino in attesa, e così diventi tu stesso un’istantanea di quell’essere che ti porti dentro e attorno, una radiografia spazio-temporale scattata da quella cosa che ti sta davanti che a sua volta è stata scattata da qualcun altro che echecazzograziedipermettercidivedereecapire. Vedere e capire, anche se capire è un parolone. Ecco. Tu guardi lì e vedi qui, capisci circa e non comprendi niente, ma è proprio attraverso quel vuoto di tutto che ti si crea dentro che riesci ad arrivare di là: è un tunnel di nulla in grado di portarti lo sguardo fin quasi dentro l’apparecchio fotografico che ha immortalato l’attimo e, se ti avvicini ancora un po’, riesci pure a sentire l’odore di ciò che vedi, e non è quasi mai buono, e non lo bisognerebbe nemmeno chiamare odore ma vita, anche se a volte si fa persino fatica a chiamarla così.

E non è che poi uno sia subito cosciente di questa cosa; sul momento è vero si resta comprensibilmente toccati, si leggono le didascalie, la storia, il perché e il percome, la giuria e il premio, e quando si esce i bla bla bla sull’esposizione si moltiplicano. È dopo che te ne accorgi, quando magari lo vuoi raccontare a qualcuno e non ci riesci, quando lo vuoi scrivere e non sai da dove cominciare, quando guardi l’agenda e ti domandi “ma davvero il 3 giugno sono andata a quell’inaugurazione?”, perché di fatto non ricordi più nulla. Ed è in quel momento che lo intuisci, che lo vedi per la prima volta: il tunnel! È ancora lì, non si è chiuso, è rimasto attivo: è quel nulla attraverso cui hai sentito l’odore che non è odore ma è vita e nemmeno quella ma anche sì porcaputtana. E allora torni là e vedi e capisci, anche se capire è un parolone, e ti accorgi che quelle immagini non sono solo istantanee ma sono proprio pezzi di esistenza tolti alla storia, dei frame rubati al tempo al cui posto è rimasto il nulla, un vuoto, un quadratino nero a cui ora è possibile accostare l’occhio e guardarci attraverso. Poi lo senti, e questa volta non si tratta più solo di un odore ma è anche un rumore: “click”. Non sempre però si tratta del click della macchina fotografica e in questo caso non ti restituisce sempre in un click la vita ma, come sta accadendo anche adesso un po’ ovunque nel mondo, si tratta di quel click che la vita, la vita, te la toglie.

L’esposizione World Press Photo 15 sarà visibile fino al 24 giugno 2015 presso l’Antico Convento delle Agostiniane a Monte Carasso. (articolo pubblicato su Timmagazine. Leggi il pezzo.)

Il mio Nepal, scritto per emotionrit.it

Ci sono posti che diventano rifugi in cui andare quando si ha bisogno di tirarsi un po' su, di riposare, di riscoprirsi, di capire o semplicemente di respirare quell'aria lì. Uno di questi per me è il Nepal. Ringrazio Giovy Malfiori di emotionrit.it per avermi permesso di tornarci con la mente e col cuore, e con tutto il sottile che c'è in me. Leggi l'intervista pubblicata su emotionrit.it

Dialogo fra il Mare e la Montagna

Se la montagna mi aiuta a trovare risposte, il mare è capace di pormi le giuste domande...e così, tra un caffè e una fetta di pane imburrata, è nato questo piccolo dialogo fra il mare e la montagna:

- Ciao, chi sei? 
- La Montagna
- Perché sei così alta?
- Per toccare il cielo
- E com'è?
- Blu, come te
- Sono quindi il cielo?
- Sì, lo si capisce guardandoti l'orizzonte
- Ma l'orizzonte è così lontano...
- Per questo ti hanno dato le onde, per portare il cielo sulla spiaggia
- Ma questa cosa gli uomini la sanno?
- Forse no, ma la intuiscono
- E quando mi toccano cosa accade?
- Che diventano loro il tuo orizzonte, questa volta così vicino.

Il giorno in cui te ne vai

Arriva sempre, inevitabilmente, tutti gli anni. È il giorno in cui te ne vai, anche se il tuo non è proprio un andarsene ma piuttosto un terminare un percorso assieme, quasi come fosse un’esperienza prestabilita dal destino a cui, crudele, ha applicato fin dal principio una scadenza. Il nostro è stato amore a prima vista. Non so se il merito sia stato dell’abito che indossavi, in un abbinamento di colori improponibile ma di sicuro effetto, oppure semplicemente della chimica, di quella cosa se si instaura fra due individui impossibile da ignorare ma che è dato solo vivere.

Non l’avevo mai fatto, ma ti portai subito a casa mia. Dentro me suonavano tutti i campanelli d’allarme: “non farlo”, “te ne pentirai”, “è il punto di non ritorno”, ma un ritorno già non esisteva più, perché la mia nuova direzione eri tu. Spogliarti è stato come scoprire una terra inesplorata, sia di me che di te. Il tuo odore mi ha catturata e incatenata a una sensazione che non volevo più abbandonare, che mi costringeva a bramarti con una passione primordiale legata al senso di sopravvivenza, come il bisogno di respirare. Accarezzarti, scoprire il tuo profilo, i tuoi confini fisici e sensuali è stato come riscoprire i miei: uniti eravamo un territorio unico, accessibile solo a noi due, che percorrevo con le labbra fino a quando finalmente vi entravi. Il tuo sapore è una scossa ai sensi, un uscire e rientrare dalla follia e dall’incanto, in un continuo avvinghiarsi capace di plasmare la perfezione, su cui erano scritti i nostri nomi. Con la lingua percorrevo la tua essenza fino a quando la sentivo abbandonarsi, sciogliersi, riempirmi la bocca e l’animo in un appagamento sensoriale che di razionale non aveva nulla, se non forse il semplice essere lì, in quel momento, assieme, e vivere.

Ma come accade tutti gli anni arriva il momento in cui te ne andrai, in cui resterò con in mano il tuo vestito, che non userai più. Oggi è quel giorno e sono un po’ triste, ma come sempre ti lascerò fare perché è giusto sia così. Ti guarderò ancora un’ultima volta prima di adagiarti in bocca e, quando la danza dei sensi avrà di nuovo inizio, penserò: “ciao ultimo ovetto di Pasqua, ci vediamo l’anno prossimo”… e grazie!

Colazione da George (racconto trash-pulp)

Sentivo il rumore del traffico aumentare al di là della finestra. I pendolari del lunedì cominciavano il loro perverso rituale, incatenandosi uno all’altro fino a formare la coda di un serpente a sonagli pronto a scagliarsi contro la prossima preda: l’impiegato bisognoso. Dovevano essere all’incirca le 6 e mezza; il chiarore del mattino entrava dalle finestre quel tanto da riuscire a stagliare l’ombra di Artù lungo le pareti di camera mia. Artù è un cane di razza golden retriever, in quel momento già seduto in attesa di essere portato fuori: “Va bene, adesso mi alzo”, gli dissi. Un click al pulsante On della macchina del caffè, un passaggio veloce in bagno, ed eccomi in cucina a scegliere la capsula Nespresso più idonea all’umore: “Oggi vado di… Linizio lungo”, et voilà.

Posiziono la tazza e faccio partire l’erogazione, quando sento rimbombare sulla parete un oggetto scagliato dal vicino per farmi capire di averlo disturbato. Artù raddrizza le orecchie: “Anche tu non ne puoi più vero?”, e abbaia in tutta risposta. Ok: decido che se Linizio deve essere, che Lafine sia. Apro il cassetto delle capsule già adoperate, afferro due Limited Edition, le svuoto, do forma all’alluminio e lo ricarico con polvere nera, ma questa volta non si tratta di caffè. Afferro la doppietta dall’armadio, inserisco le cartucce appena create, apro la porta e, senza nemmeno suonare il campanello, mi creo l’“avanti” in casa sua: “boom”. Ciò che resta della maniglia rotola in corridoio. Entro. Il volto spaventato del rompiballe appare sulla soglia della camera: “Ciao tesoro, questa mattina ti ho portato la colazione a letto, ecco il tuo caffè”, gli dico, prima di piantargli un colpo dritto in mezzo agli occhi. Il cervello schizza sulla parete come la schiuma di un cappuccino: “Ho sempre odiato il latte nel caffè”, dico, mentre Artù, che adora le pozze, corre a rotolarsi felice in tutto quel sangue: “Dai che andiamo”, lo esorto.

Esco dall’appartamento e sul pianerottolo vedo la Signora Tarantini in vestaglia e pantofole guardarmi sbigottita: “Salve Signora, desidera anche lei un petit dejeuner?”, le dico allungando la doppietta nella sua direzione come fosse un vassoio da bar. Interpreto il rumore della sua porta sbattuta come un no, al che rientro nel mio appartamento, scambio il fucile con il guinzaglio e torno da Artù, rimasto fuori: “Guarda come ti sei conciato”, lo rimprovero rassegnata. Lui di tutta risposta si scrolla, dipingendo le pareti del pianerottolo delle scale di un rosso carminio simile al Decaffeinato intenso. Scendo le scale e mi fermo dalla custode per informarla che al numero quattro ci sono due capsule da gettare nell’apposito centro di raccolta rifiuti. Lei annuisce, afferra spazzola e secchiello e si dirige al piano superiore: “Cosa non si è disposti a fare per un Nespresso…”, la sento borbottare sulle scale. Mentre porto Artù al fiume noto che sulla mano mi è rimasta una goccia di sangue. La assaggio, giusto per sentirne il sapore: “È dolciastra, bleah”, penso schifata, prima di aggiungere ad alta voce: “D’altronde lo diceva sempre anche mia nonna: per avere la vita dolce bisogna bere il caffè amaro”… in fondo, what else?

La Porziuncola

È li, in Umbria, poco lontano da Assisi, piccola piccola, da 400 anni protetta dalle intemperie, da 800 venerata da seguaci e pellegrini…. Cosa? È lei, la Porziuncola! Si tratta di una chiesina minuscola, appena 28 mq di costruzione romanica, costruita nel IV secolo d.C., divenuta in seguito proprietà dei Benedettini e donata a sua volta al conosciutissimo Francesco d’Assisi (già, quello che come il Dr. Dolittle parlava con gli animali), dove fondò egli stesso l’ordine dei frati Minori, delle Clarisse, e dove alla fine vi morì.

Signori, che siate credenti, cristiani, mussulmani, atei o zoroastri non importa, quella microscopica costruzione ha il fascino della perfezione, la luce dell’eternità e la dolcezza della creazione, tutte proprietà universali, non di uso esclusivo di una sola religione o fede.
Ma la particolarità che la rende mirabilmente fantastica è che, nel diciassettesimo secolo, per accogliere degnamente i pellegrini in arrivo, vi fu costruita attorno la basilica di Santa Maria degli Angeli… già, avete capito bene, la Porziuncola è una chiesetta dentro una chiesa, aprite il portone e a metà della navata principale trovate un’altra chiesa, una sorta di Matrioska culturale (da culto, non da cultura), un calendario dell’avvento con la finestrella che si apre su un’altra che bisogna nuovamente aprire per scoprire cosa c’è dietro e dietro c’è sempre il Natale, in pratica un doppio Kinder Sorpresa.

In principio la Porziuncola si trovava in mezzo ad un bosco, circondata da querce, uccellini, scoiattoli e angeli vari; un po’ come le nostre chiesine di montagna, che giri l’angolo e te le ritrovi lì in mezzo al cammino, così ingenue e umili, così alla portata di chiunque ne voglia semplicemente ammirare la bellezza, così vicine a quel qualcosa di così immortale…. Poi, senza che nessuno ne abbia chiesto il parere, si è ritrovata inglobata in un colosso monumentale che poco riporta il mutare delle stagioni, che poco le lascia scorgere del mondo esterno.

Come si sarà sentita la prima notte che, al calar della sera, invece di tante "buona notte" portate dal vento, ha sentito solo il rumore della serratura del portone che si chiudeva? Come avrà reagito al ritrovarsi circondata solo da uomini anziché da tutti gli esseri del creato? E le saranno piaciuti i canti liturgici come sostituzione al canto degli uccellini? 
Ma avrà avuto la tentazione di fuggire da questa prigione dorata? E se avesse voluto anche lei, come Alice, mangiare un pasticcino per diventare grande? Che abbia sorseggiato dalla bottiglia "bevimi" e non sia più riuscita a prendere la chiave dal tavolo per aprire quel pesantissimo portone? Oppure, semplicemente, avrà tirato un gran sospiro di sollievo, così almeno non avrebbe dovuto preoccuparsi più di nulla? Le cede un po’ un cornicione qui, e glielo mettono a posto immediatamente, si apre una crepetta là, ed arrivano squadroni di restauratori, un pellegrino vuole incidere il suo nome nella pala d’altare, e subito l’arrestano; in pratica, Signori, chi rifiuterebbe un servizio del genere?

Niente più cacche d’uccelli, niente più piedi nella palta dopo un temporale, scomparse totalmente tutte quelle foglie portate dal vento che le facevano solo prudere il naso e che bisognava sempre scopare fuori, bloccato completamente il rilassamento strutturale dato dal passare del tempo, arrestata in massa la pipì sulle pareti perimetrali o il pericolo di vandalismi, senza dimenticare le piacevoli paspatelle umane che riceve tutti i giorni, da parte di coloro che la vogliono solo toccare (sperando di ricevere un tocco in cambio)! Sarà per questo, cara la mia Porziuncola, il motivo per cui, malgrado ti abbiano sradicato dal tuo luogo di nascita, hai un’espressione sempre così soddisfatta e solare, così lieta?
Ora che ci penso, non è giusto dire che sei stata sradicata dal tuo luogo di nascita perché sei sempre rimasta lì, sei solo stata inglobata in un’altra chiesa, anzi, sei, in fin dei conti, il motivo della nascita stessa della basilica che ti circonda e protegge.

Credo di aver finalmente capito cosa ti contraddistingue da tutte le altre: sei una sorta di rivincita dei piccoli, dei meno fortunati, dei Davide contro i Golia, sei la piccola Porziuncola contro la grande Chiesa.
Per questo sei così speciale, ti sei ritrovata tuo malgrado improvvisamente adulta senza essere cresciuta, improvvisamente spettatrice del bene e del male umano, non più solo della natura. In realtà sei grande, enorme, immensa, solo che agli occhi della gente irriverente sembri piccolina, minuscola, quasi una nana… non so se hai deciso di rimanere in quella posizione perché nemmeno tu, come De André, conosci la vera statura di Dio, o resti così proprio perché la conosci veramente, ma fatto sta che ai miei occhi non sei più semplicemente la piccola Porziuncola imprigionata, ma sei diventata la grande Porziuncola inginocchiata!

Storia di un canarino che è passato di qua

Un canarino, ieri, è passato di qui. Pioveva. Il mondo appariva verde, di quel verde intenso proprio della natura quando si disseta. Poi, improvvisamente, un puntino giallo ha sottolineato la sua presenza, semplicemente mostrandosi. Lo stupore c‘era, la meraviglia pure, e l’entusiasmo infantile ha esordito con “Un canarinooooo!”, mentre con il dito continuavo a seguire il suo volteggiare, quasi potessi dirigerne la traiettoria. Chissà da dove arrivava, se appena dietro l’angolo o da molto lontano, oppure direttamente dal sole o da un limone, visto che ne portava lo stesso colore. L’avevano liberato? Oppure era in fuga? 


Certo è che, a vederlo così abituato all’uomo e ignaro dei pericoli, c’era da chiedersi se sarebbe vissuto ancora a lungo… ma a dire la verità, guardandolo bene, sembrava persino impacciato, dubbioso, goffo, forse anche un po’ ridicolo. 
Ma la libertà, in sé, non dovrebbe apparire sempre fiera e dignitosa? Che a volte possa essere fuori luogo? Ma fuori da cosa: da una gabbia? E questa gabbia, dove comincia e finisce? Non è che questo canarino, in fin dei conti, è uscito da un prigionia per entrare in un’altra, molto più grande e stimolante, ma pur sempre in una costrizione? Avrà conquistato la libertà fisica, per diventare schiavo della sua inesperienza? Abbandonando le sue certezze, avrà incontrato i propri dubbi? 


Dicono che la libertà di un individuo termini quando comincia quella di un altro: ma come si fa a sapere se si sfrutta completamente il proprio personale campo d’azione, oppure se si occupano solamente pochi centimetri quadrati, magari gli stessi da cui possono fuggire i canarini? E se quell’uccellino fossi stata io, quale realtà avrei scelto? Quella in cui avrei potuto cantare a squarciagola tutti i giorni, oppure quella in cui avrei buttato là qualche cip cip così, giusto per noia? Avrei scelto di rimanere accanto allo sguardo affettuoso del mio padrone, oppure sarei andata incontro a quello di un gatto e di una poiana?


Ma, pensandoci bene, non è forse a questo punto che solitamente cominciano le favole, le storie da raccontare ai bambini? “C’era una volta un canarino che divenne amico di un micio e di un rapace…”. Ecco, forse è questo il vero senso della libertà: non tanto il riuscire a valicare i confini imposti o personali, ma il credere che da essa possano nascere delle favole… come vedere volare un canarino e una poiana assieme, in un giorno di pioggia.… e vissero per sempre, felici e contenti