Il senso dell'autunno

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È quello stare seduti su una panchina, al sole, ad occhi chiusi, lasciando al caldo percepito sulla pelle il compito di trasportarci nel paesaggio. Se in quel momento ci fosse un pittore intento a riprendere l’attorno non si accorgerebbe nemmeno della nostra una presenza, ci ritrarrebbe semplicemente come parte dell’insieme, fusi nel panorama.

E poi l’odore, come definirlo? La fragranza scaturita dai sentieri al nostro passaggio è un miscuglio di terra, resina, selvaggina ed esperienze. Dal bouquet olfattivo si possono inoltre riconoscere alcune note di pensieri, qualche risata, un accenno di meraviglia e a volte persino una vena di rimpianto, abbandonata sul cammino affinché possa iniziare a dare vita ad altro, o scivolare via.

Quando si rimane assorti in questo stato, accade sovente che salgano alla mente singole parole come fanno i gnocchi ormai cotti prima di adagiarsi in superficie. In questi casi per assaporarle è sufficiente iniziare a pronunciarle, ed ecco quindi fuoriuscire dalle labbra bocconcini di castagne, ribes, brindisi, musica, tartufo, battiti, vaniglia, arance e così via, fino ad arrivare a croccanti biscotti fatti di baci, o di commiati.

E le voci? Durante il giorno è un continuo ascoltare storie, suoni, respiri e canti giunti da indefinite distanze, i quali sussurrano all’orecchio indovinelli la cui risposta va cercata là fuori, in quel tripudio di colori a cui bisogna ogni volta riabituare lo sguardo, perché per conoscere davvero questa stagione occorre osservarla a lungo fino a quando messa a nudo si ritrae, e scompare.

L’autunno è fatto così, si agghinda e si mette in posa per distrarci ma se si ha la pazienza e la volontà di andare oltre si capisce che l’immagine non è quella che si ha di fronte, ma appare a poco a poco come negli scatti delle vecchie Polaroid. Per coglierlo ci vuole quindi qualcuno che abbia l’intenzione di lasciarsi avvicinare e impressionare, che sappia a sua volta allungare la mano per sventolare il risultato e soffiare delicatamente sulla superficie: si vedrà così apparire il sentimento dell’autunno immortalato su una panchina, ad occhi chiusi, intento a godersi il sole, seduto proprio accanto a noi.

Articolo pubblicato su Il Bernina il 29 ottobre 2018.

Concorso fotografico Lugano Città del Gusto: menzione speciale per Eccoti

Eccoti

Eccoti

Dal 13 al 23 settembre si è svolto in Ticino il primo food festival; 11 giorni di eventi, manifestazioni, e incontri che hanno trasformato Lugano nella capitale svizzera del gusto. Per l'occasione è stato indetto il concorso fotografico “Lugano Città del Gusto” a cui ho partecipato con tre scatti, e quello qui sopra riportato ha ricevuto dalla giuria selezionata una menzione speciale.

Di seguito quanto presentato:

In questo lavoro ho preso spunto dall'affermazione di Kant in cui dice che il gusto è la facoltà di giudicare il bello, quindi un giudizio espresso a seguito di un'indagine in cui il concetto di osservazione è un'attitudine indispensabile.

Osservare permette di diventare parte di ciò che viene osservato, offrendo di conseguenza la possibilità di venir osservati. Quindi osservare per osservarsi, scoprire per scoprirsi, gustare per gustarsi, in un gioco di riflessi e fusioni fra ambiente interno e circostante dal cui dialogo sono nate storie sottili.

I titoli delle opere presentate sono:

  • Eccoti

  • Eccomi

  • Eccolo

Essendo il concorso legato alla Città di Lugano e più in particolare all'evento Lugano Città del Gusto, nello scatto Eccolo il racconto immaginifico è ambientato in un contesto di sapori e bellezza, in Eccomi fra moda e paesaggio e in Eccoti fra cultura e amore.

Eccomi

Eccomi

Eccolo

Eccolo

La Via Lattea 15: una costellazione fatta di perle da indossare

Esperienza di bellezza - Ci sono istanti talmente densi di bellezza che si possono infilare come perle ad un collier di meraviglia, prezioso costruito tramite la sua celebrazione durante la notte di sabato scorso.

Sto parlando dell’evento organizzato dal Teatro del Tempo - La Via Lattea, un percorso iniziato alle 23 e terminato alle ore 7 del giorno seguente suddiviso in otto tappe musicali, canore, parlate ma, soprattutto, intense.

Uno dei più grandi poteri insiti nella bellezza è quello di unire, perché per poterla percepire occorre in primis rendersi presenti, essere lì, ricettivi e pronti ad accogliere per cogliere. Questo stato aiuta a superare l’apparenza della realtà per entrare nella dimensione del sentire, della con-partecipazione, di quella sensazione in cui ci si sente in unione con quanto sta avvenendo. Poter attingere a questo rivelarsi dell’esistenza è ciò che può accompagnare verso la via della verità: in pratica è un dono immenso.

E nella notte divenuta immortale:
c’era la luna piena, il vento che delimitava spazi invisibili, il freddo.
Il cammino lungo il bosco, le torce fra gli alberi e alcuni fari laggiù, sull’autostrada.
Qualche chiacchiera, molti passi e nelle orecchie un susseguirsi di note miste a pensieri.
Attraversare paesi dormienti, qualche finestra illuminata, le mani in tasca.
Parole appoggiate come pietre per attraversare fiumi silenziosi nel loro scandire.
Onde. L’eco di canti nati altrove consegnati a noi viandanti.
La schiena appoggiata a colonne scolpite, sulla testa un cielo ornato d'angeli.
Salire gradini, varcare e farsi traghettare da un coro, da un loro.
La stanchezza, l’ora blu, il lago increspato dal vibrare del mattino nascente.
L’umidità sulla pelle, l’abbandono dell’anima, nel cuore ogni accadere:
l’imperitura alba è qui.

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Grazie ai fautori di tutto ciò, agli artisti presenti, al coro Goccia di voci e, naturalmente, a tutti coloro con cui ho potuto condividere questa straordinaria testimonianza ed esperienza di verità essenziale..

Due mostre, tre artisti, un sol guardare

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A inizio agosto sono andata a vedere due mostre i cui protagonisti erano Alberto Giacometti, Francis Bacon e Ferdinand Hodler; una presso la Fondation Beyeler di Basilea e l'altra presso il Kunstmuseum di Winterthur. In quei due giorni ho provato ad indossare le loro visioni e da lì raccontare il viaggio sui miei profili social. Ecco quanto pubblicato.

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Riflessi di insiemi - Frammenti. Fotogrammi. Fermimmagine. Uno dopo l’altro. Immobili nell’istante, veloci nel sol fluire. E corrosi. Da un vuoto ora d’atmosfera ora d’anima. In attesa. Nella distanza.

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In gabbie - La libertà raggiunta attraverso l’astrazione dallo spazio. Guardare all’uomo attraverso la sola verità realizzata dall’abisso, affinché si possa giungere all’intimo per ritrovarvi l’abisso stesso.

Interpreto le gabbie di Giacometti come groviglio di radici da cui l’io individuale può sviluppare la sua partecipazione al divenire universale; un attecchire per potersi elevare, un prendere il nutrimento dall'essenza per riconsegnarla al sottile.

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Il passo di un profumo - La marcia di un uomo, il suo movimento, il suo camminare, come rappresentazione di un processo interiore. Quindi osservare non la direzione o la meta raggiunta ma la capacità di ogni singolo individuo di giungere alla sua totale manifestazione.

Dunque: tu quanti passi stai facendo? Io me lo sto domandando. Giacometti, nel suo uomo che cammina, credo sia “semplicemente” riuscito a cogliere il profumo della rosa.

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Il sapere lo sguardo di Giacometti - Giacometti nelle sue sculture cercava di trasmettere un’idea di insieme dell’individuo, omettendo i dettagli ma inserendovi l’unicità; un po’ come accade quando si riconosce un familiare da lontano senza poterne cogliere i tratti specifici. È con questo pensiero che ieri mi sono posizionata al centro del Mittlere Brücke di Basilea, circondata da 120’000 persone (e io che pensavo di trovare una città deserta, visto il periodo festivo...).

Schiena diritta, mani lungo i fianchi, piedi uniti e sguardo lontano: come le sue sculture, le sue donne.

Il sole stava calando. L’aria benché calda dava sollievo. La gente rideva. Canti. Odori di cibo. Qualche scoppio. L’asfalto. E loro: la gente.

Volti informi, senza storia, senza identità. Un flusso. In quel momento credo di aver percepito l’essenza dell’umana libertà, quella dell’appartenenza a un unico genere che nulla esclude se non il tutto, affinché lo si possa definire, sentire, e inglobare: il tutto.

Poi l’ho visto. Era lo sguardo di un uomo posto sul fondo del ponte, di fronte a me. Schiena dritta, mani lungo i fianchi, piedi uniti. Ci siamo guardati e sorrisi, prima che la folla tornasse ad essere tale, assorbendoci.

L’unico dettaglio essenziale per Giacometti erano gli occhi, su cui si accaniva. Diceva che lui voleva “sapere lo sguardo”; ecco, grazie a quell’uomo ieri ho capito cosa intendeva davvero.

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Di carne, sangue e ciò che si diffonde - Dai ritratti di Francis Bacon, malgrado distorsioni e deformazioni, scaturisce una finezza struggente paragonabile a un momento di intimità; riusciva a cogliere ciò che sorgeva dall’individuo oltre la forma con una delicatezza a tratti commovente.

Disse “chi posa per un autoritratto è composto da carne e sangue; che deve essere catturato è ciò che emana”.

Ora proverò a indossare la sua visione cogliendo ciò che fuoriesce dalle persone presenti in questo luogo pubblico, oltre l’aspetto.

Trovo indifferenza, imbarazzo, rabbia, tranquillità, disperazione, gioia, fastidio, curiosità, amore, senso del dovere, vergogna, divertimento, solitudine, fierezza, e molto altro.

Pochi secondi, è un esercizio, non occorre di più. Oltre la carne e il sangue si accede all'altrove presente, allo spazio reale. Paradossalmente è proprio considerando l’essere umano come un nulla informe che il suo tutto appare, definendolo.

E voi, cosa state cogliendo nel vostro attorno ma, soprattutto, cosa emanate? Io non so, forse ora gratitudine, ma non solo, anzi... sicuramente non solo... e molto di quell’anzi…

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Di selfie e autoritratti - Giacometti e Hodler hanno dedicato la vita intera alla ricerca dell’identità umana, passando anche dalla contemplazione di se stessi. Il primo cercava il proprio io ritraendo i familiari, mentre il secondo ha eseguito più di 40 autoritratti, un fatto piuttosto insolito per un pittore di più di 150 anni fa.

Credo che l’autoritratto, per essere considerato tale, debba riflettere parte della propria esistenza; inevitabile pensare a quanto di tutto ciò sia oggi presente nella maggior parte dei selfie, compresi ovviamente i miei. 

Hodler e quel suo svelare il luogo che accade - Nel ritrarre paesaggi Ferdinand Hodler cercava soprattutto di cogliere l’essenziale, quel qualche cosa capace di accomunare ogni essere vivente e non; la conferma dell’esistenza di un principio universale.

Nel suo lavoro montagne, fiumi, laghi e rocce son divenute forme viepiù rarefatte, arrivando a tramutare la realtà in luoghi sospesi nel tempo e nello spazio, nutriti e sostenuti da colori più simili a un canto che a un pigmento.

Abito in alta montagna, quindi sono praticamente immersa nel contesto da lui spesso dipinto; ciò che scaturisce dalle sue opere lo ritrovo però quando attraverso particolari stati d'animo capaci di orientare lo sguardo verso un'osservazione più assoluta, ovunque mi trovi, foss'anche in centro città.

In pratica suppongo Ferdinand Hodler quel principio universale sia davvero riuscito a scovarlo ma, soprattutto, a svelarcelo. Affinché questo potesse accadere ha prima però dovuto necessariamente rendersi presente LUI a quegli orizzonti, a quei luoghi dello spirito in cui è divenuto egli stesso l’interiorità del paesaggio da rappresentare, rappresentandosi.

Insomma: il mondo accade a chi lo coglie ma, per poterlo fare, occorre essere coscienti della propria presenza, esistenza, vita e individualità; solo diventando così, uniti l'uno all'altro, potremo quindi divenire l'orizzonte verso cui guardare, per guardarsi.

P.S.: nelle foto qui sopra trovate un dipinto di Hodler del 1915 in cui sono ritratte delle Alpi vallesane e un mio scatto fatto in dicembre in Engadina, a testimonianza che l'essenziale è ovunque, sempre ;-)

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Ludovico Einaudi al Lej da Staz: ognuno uno

Esperienza di bellezza - Prendi un pianoforte, un violino e un violoncello, aggiungici come sfondo le montagne, appoggia il tutto su un lago, cospargi l’attorno di pinete, irrora di luce al tramonto, versaci in mezzo un sacco di persone ed ecco: la bellezza è servita.

Se poi questo impasto lo si dà in mano a chi la bellezza non solo la sa creare ma sa anche dove andare a scovarla e alimentare be’, diventa qualche cosa di assoluto. Ieri nell’ambito del Festival da Jazz si è tenuto al Lej da Staz un concerto di Ludovico Einaudi. Ha suonato due ore consecutive, il tempo necessario affinché potesse accadere ciò che è stato, e per ciò che è stato intendo la gente: le persone; noi. 

Ognuno seduto accanto al proprio mondo, assorto anch’esso nell’ascolto.
Ognuno consapevole del silenzio che ha iniziato a regnare, non solo attorno.
Ognuno gentile nella presenza, e grato nel ricevere.
Ognuno inserito in un rigo musicale ampio, come la somma dei respiri consumati.
Ognuno sospeso su un momento che stava nascendo, dalla fine del giorno.
Ognuno responsabile di tramutare ciò che stava aleggiando nell’atmosfera, in eternità.
Ognuno parte di uno spazio reale, dove gli elementi hanno invaso le distanze.
Ognuno padrone della direzione intrapresa, sospinto da un nobile vento.
Ognuno cosciente di partecipare attraverso la presenza, a un atto di estrema bellezza.
Divenendo tale. 
Bello.
Ognuno.
In ciascuno.
Uno.

Scrivere durante un concerto di Jan Garbarek, ed è subito jazz

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Ecco cosa accade quando hai un taccuino fra le mani mentre sul palco si esibiscono:

  • Jan Garbarek al sassofono
  • Rainer Brueninghaus alle tastiere
  • Yuri Daniel al basso
  • Trilok Gurtu alle percussioni

Pensieri lasciati scorrere liberi durante il concerto di Jan Garbarek di mercoledì 18 luglio 2018, presso il centro Rondo a Pontresina, nell'ambito della rassegna Festival da Jazz.

La profondità dello smeraldo riporta all’onda della carne. Tengo uno sguardo di cane e le braccia dei vinti. Mi arriva odore di stracci e inchiostro; è jazz, ma un jazz blu.

Vento, oceano e fondali: un gabbiano oltrepassa i coralli. Un coperchio di cielo si appoggia sul mare.

Una pagliuzza di brace si alza nell’aria. Dalle stelle fuoriescono bolle di sapone che vanno a scoppiare sul gabbiano trasformandolo in terra, e si fa isola. Sabbia, coriandoli di quarzo, riflessi che immortalano uno stroboscopio impazzito. Tuoni dolci come caramelle di pioggia; il gabbiano vive.

Su un treno in città. Finestrini appannati, mele schiacciate, mele leccate. Impronte di ricordi accartocciali restano abbandonati sotto i sedili. Ad ogni curva si accumulano in un angolo; rotolano alle fermate e durante le partenze. Nel loro peregrinare sfiorano piedi e zampe, cicche e cuori. Prossima fermata: ieri. Il sole è un bigliettaio che oblitera pensieri pagati a rate, mai scaduti.

Schegge di piedi, aghi nel suolo: dimore per semi, guanti per dita. Manciate di polpa, succo di terra e occhi di foresta. Profili di anime sdraiate al suolo osservano aquiloni trattenuti da città lontane. Zattere di sospiri approdano su spiagge brulicanti di gesti intonsi ancora impacchettati in quei farò che mai li scarterà. Cigni di panna nuotano in laghi di coca rossa, bambini riempiono nuvole con noccioli di ciliegie sputati. Piove sugli aquiloni; germogliano le mani.

Sono nel timpano del mondo.

Gomitolo di lana. Medusa. Una tovaglia di plastica in giardino su cui comincia a piovere; olive in una botte.

Ci stanno suonando: noi tamburi di carillon.

Re Lear.

I nostri organi sono immobili, collegati al palco attraverso fili su cui sono appese sagome di uccelli incapaci di volare. Cadono fusi su cui ci pungiamo: principi si addormentano, il bosco echeggia.

Il Jazz sfinisce: non hai più una fine ma sfinisci, verso l’infinito.

Applausi. Standing ovation. Fine.

 

Achille Castiglioni visionario al Max Museo di Chiasso

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Tutti dovrebbero andare a vedere l'esposizione di Achille Castiglioni al Max Museo di Chiasso, non solo gli interessati di grafica, design, o forme d’arte in genere ma chiunque: dalla casalinga al panettiere, dallo studente di economia al pilota di aeroplani, perché di Castiglioni colpisce e scaturisce soprattutto il pensiero, oggi più che mai necessario.

Il suo è un modo di osservare e di agire di cui dovremmo riappropriarci, perché se è vero che la parola visionario proietta altrove nell’esposizione il suo spirito ci riporta qui, al presente, a noi stessi e a un noi stessi nei confronti degli altri. Il suo osservare non era solo un cogliere ma un integrare; il suo considerare non era solo un accompagnare ma un rispettare; il suo progettare non era solo un creare ma un servire; il suo inventare non era solo uno scoprire ma un sottolineare e il suo cercare non era solo un indagare ma un intravedere, il tutto ponendo al centro l'essere umano. Per lui le persone erano parte integrante di un progetto: la base da cui partire, da cui farsi ispirare, con cui interagire e attorno cui costruire un dialogo fatto di spazi e gesti.

Nei filmati, citazioni e schizzi esposti si possono prendere appunti su quello che potremmo considerare un buon agire applicabile in ogni campo. Infatti credo che sia sempre utile ogni tanto dare una ripassata a cosa sia davvero un lavoro di gruppo, l’importanza delle relazioni, l’ascolto, la partecipazione, l’effettiva integrazione e assoluta importanza dell’usufruitore finale, la corrispondenza fra modi di essere e ideare, la condivisione intesa come accettazione e sostegno di intuizioni avute da chiunque, porre al centro l'obiettivo e non se stessi, rifare, rivedere, cancellare, sbagliare, scusarsi, accogliere, dare, dare e ancora dare, senza dimenticare di divertirsi, ridere e giocare.

Insomma, Achille Castiglioni Maestro lo è stato in vita e lo è tuttora, e la sua straordinaria grandezza scaturisce anche dall’attitudine da eterno studente che ha saputo mantenere nei confronti del mondo. C'è da dire che quest'anno avrebbe compiuto cent'anni ma mi sa che, grazie al suo osservare, la possibilità di ricevere un immenso dono sarà ancora una volta nostra: non ci resta quindi che coglierla, e applicarla. 

“Non esistono regole,
ma un metodo di scelte successive,
caso per caso,
risposte ai perché e
modifiche fino all’ultimo”

Ma non è finita qui: durante la mostra vedrete diverse immagini e filmati del suo studio a Milano, oggi diventato Fondazione Achille Castiglioni, visitabile su appuntamento. Se vi capita andate, perché Giovanna, figlia di Achille, saprà trasformare la visita in un’esperienza indimenticabile; io ancora oggi quando ci penso sorrido, e son di quei sorrisi belli, a cui segue sempre la voglia di ringraziare l’opportunità che l’ha fatto nascere. Quindi: :-).

I luoghi in cui leggere Chiodi di Agota Kristof

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Non so se sia giusto leggere Chiodi di Agota Kristof dal parrucchiere, al bar e in un centro commerciale, ma stavolta è andata così: è accaduto, come cadono i suoi versi prima di ritrovarteli fisicamente accanto, sorti dall’interpretare. Già, perché le parole di Agota prendono forma attorno a te, ovunque tu sia.

Sono volumi reali che divengono luoghi prima di sciogliersi in aghi, in aghi che appuntano paesaggi su panorami immobili di cui se ne cogliere l’essenza come una folata di vento fa con un nugolo di foglie secche. E così fra molteplici chiacchiere di persone intente a raccontare altro ci si può ritrovare a sferzare stanze, accarezzare deserti, spazzare riflessi e attraversare marciapiedi, per morire infine fra corpi e addii.

Forse non esiste un luogo idoneo dove leggere Agota Kristof in quanto lo è lei stessa, quel luogo; un territorio che dell’attraversare ne sente l’incertezza e le possibilità, che dello scoprire ne morde gli odori e ne spoglia la passione, che dell’abbandonare ne possiede la sofferenza e la libertà ma che, soprattutto, del vivere trasuda quell’intensità che nulla esclude e che tutto riconosce. 

Chiodi, poesie di Agota Kristof, edizioni Casagrande, ISBN 978-88-77-13-791-3

Franca Ghitti, scultrice di note bidimensionali

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Oggi sono andata a vedere la mostra della scultrice Franca Ghitti al Museo cantonale d’Arte a Mendrisio. Simbolismo, rituali, gesti, presenze; forze ancestrali capaci di risuonare con corde dell’anima che non sappiamo più interpretare. Non sono mai state letture semplici, chiare e dal significato specifico, ma proprio questa indefinita espressione permetteva all’essere umano di cogliervi l’infinito. 

Queste note appartenevano alla cultura dei luoghi e approcciarvisi era una necessità; consisteva nel lasciare che qualche cosa potesse agire sulla coscienza creando movimenti e contatti con l’attorno, un attorno dai confini labili quanto il senso di appartenenza con esso, tendente per sua stessa natura all’unione.

La potenza scaturita della bidimensionalità delle sculture di Franca appartiene sia al passato che al futuro, a un vedere e a un sentire che rendono la terza dimensione possibile attraverso l’elevazione; segni la cui profondità corrisponde all’espressione incisa sul volto dell’esistenza, la cui interpretazione svela mappe che forse non intendono portare verso alcuna meta ma che di sicuro sanno colloquiare con il centro del presente, e cioè con il traguardo tagliato da ognuno di noi in quel preciso istante. 

Esposizione in mostra presso il Museo d'Arte di Mendrisio fino al 15 luglio 2018.

Cercare uno sguardo uguale alla mostra di Picasso

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Quello che non so, è cosa mi porterò stavolta a casa da Picasso, attualmente in esposizione al LAC di Lugano fino al 17 giugno 2018. L’hanno intitolata “Uno sguardo differente”, come se di un artista del suo calibro si possa avere una visione precisa anche se ed essere esposti non sono i suoi lavori più celebri. Decido quindi di trasformare la visita al museo in un mio personale gioco di similitudini ed entro nelle sale alla ricerca invece di cosa sia “uno sguardo uguale”.

Trovo bozzetti, opere su carta eseguite in acquerello, collage, pastello, gessetto, carboncino e inchiostro. Variano le dimensioni, i supporti, le annate e i soggetti, come nelle sculture presenti molteplici sono le tecniche, i materiali utilizzati, lo sviluppo nella bi-tri dimensionalità e la sperimentazione plastica. In sostanza: nulla che si assomigli nemmeno lontanamente, ma non demordo.

Attraverso le sale cambiando più volte tragitto, ripercorro persino i miei passi nella speranza di ritrovare uguale almeno nelle impressioni ciò che ho appena visionato, eppure niente da fare: ogni volta colgo un elemento nuovo, foss’anche colpa o merito della presenza umana in quel momento posta accanto a me.

Prima però di darmi per vinta decido di spostarmi nell’unico punto in comune a tutte le opere: il centro dell’esposizione, e provo a cercarlo da lì cosa sia “uno sguardo uguale”.

Mi volto a destra e a sinistra, faccio la giravolta, la faccio un’altra volta, guardo in su, guardo in giù e, prima di dare un bacio a chi vuoi tu, finalmente lo trovo.

I lavori di Picasso non possono avere nulla di simile nemmeno a se stessi in quanto si tratta di suggerimenti, di spunti attraverso cui l’osservatore può costruire una sua intima immagine mentale, ed è questa la vera opera d’arte.

Insomma, quello che non so e che continuo a non sapere, è perché chiamare differente qualche cosa che per sua stessa natura, come la straordinarietà di un artista come quello proposto, non può e potrà mai essere identica a se stessa ma, visto che il gioco l’ho completato, vi svelo la mia personalissima interpretazione.

Un qualche cosa di simile, di uguale nel confronto, effettivamente l’ho trovato, e non andava tanto ricercato nell’eredità artistica di Picasso, ma era messo lì in bella vista afferrabile da chiunque: si è trattato delle persone presenti, viste come dovrebbero apparire agli occhi di tutti se semplicemente osservate: diventano un suggerimento attraverso cui ognuno può in seguito costruirsi la propria immagine dell’umanità intera, dal cui rapportarsi è persino possibile trovare un centro e forse, addirittura, il proprio, di centro.

(La presente recensione è andata in onda su Radio 3 Network martedì 17 aprile 2018 nell'ambito della trasmissione Faigirarelacultura, nella rubrica Quello che non so)

Saleh Addonia, Lei è un altro paese

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Questo non è un libro; sono parole. 

Parole. 

Appaiono una per volta, lente, affinché se ne possa cogliere l’intero significato e tracciarne il contorno. Un contorno che resta inciso nell’aria tagliando ciò su cui appare, su cui appoggia o decidiamo di appoggiarlo, che sia nuvola, se stessi, una mano, un sopracciglio o un membro. 

E a pensarci bene non sono neppure parole ma lettere, lettere pesanti e solide che piombano al suolo creando ciò che non ha intenzione di schiacciare ma di unire; una passerella di elementi in grado di avvicinare coloro che lo vorranno intraprendere, cogliere ma, soprattutto, accogliere.

Consigliatissimo!

Lei è un altro paese di Saleh Addonia, Edizioni Casagrande, numero ISBN 978-88-7713-793-7

Andar per mare alla maratona engadinese

Alla maratona engadinese di sci di fondo si può partecipare da sportivo, tifoso, spettatore o, come ho scoperto quest’anno, da velista.

Che fosse la 50esima edizione era ben noto, con l’iscrizione dei pettorali terminata già mesi fa, come ormai tutti sapevano da giorni che non sarebbe stata un’edizione baciata dal sole, e così è stato (ma non per tutti). Pioggia e neve si sono alternati il passo più volte, quasi volessero imitare il ritmo dei 14’000 presenti al suolo diretti a Pontresina o S-chanf.

Da parte mia il tragitto è stato molto più breve, giusto qualche chilometro a piedi per arrivare sul lago di Maloja armata di apparecchio fotografico, in attesa del momento che si è poi dimostrato corrispondere a un varo. Già, perché all’inizio ero troppo concentrata su inquadrature, scatti e tempi d’esposizione per rendermene conto, eppure il mare era già lì vicino a me. Ho cambiato obiettivo, l’ho asciugato e rimesso i guanti; sono passati un elicottero, un paio di persone sotto l’ombrello, una motoslitta e poi ok, di immagini ne avevo abbastanza, potevo quindi cambiare postazione. 

Mi sono incamminata a lato pista seguendo il flusso di persone mantenendo lo sguardo al suolo per ripararmi dalla pioggia, ed è stato lì che l’ho sentito: uno, due, uno due, e uno e due, fra il silenzio. Tanto silenzio, malgrado avessi accanto mille persone. I respiri dei corridori si sono appoggiati alle spinte trasformandole a poco a poco in onde, e quando ho alzato gli occhi dal manto nevoso finalmente l’ho visto: davanti a me si estendeva il mare attraversato da una miriade di singole imbarcazioni.

Perché davvero, a camminarci a fianco prima o poi ti arrivano sia il vento dei loro pensieri sia il flusso delle emozioni che vi stanno aleggiando. È che quando questo accade poi vuoi salirci anche tu su un'imbarcazione, e così capita di ritrovarti in un giorno d’inverno, a 1800 metri di altitudine, circondato dalle Alpi, a veleggiare libero verso un orizzonte presente solo a te stesso. Magari per alcuni questa linea corrisponde a una meta, per altri a un tragitto, per altri ancora a un passaggio e per altri in fondo chi lo sa e poco importa, è che in questo lasciarsi fluire mi sa che, malgrado le condizioni meteo avverse, prima o poi tutti se lo sono visto apparire davanti: era il sole, il proprio sole.

Quello che non so, sul gioco del polo sulla neve

Quello che non so è una rubrica che tengo su Radio 3 Network una volta al mese: pillole di un paio di minuti su ciò che, appunto, non so. In quella andata in onda martedì 27 febbraio ho parlato del gioco del polo sulla neve dove, sembra, esistano regole e risultati ma che insomma, non conoscendole ho potuto leggerci altro ;-).

Testo del video:

Quello che non so, è cosa aspettarmi dal gioco del polo sulla neve. Arrivo a bordo campo, vedo otto giocatori, cavalli, mazze, arbitri e infine lei, una palla arancione che si muove su un suolo bianco come la pagina di un libro, e in quel momento capisco: quella palla non si sta solo muovendo, sta scrivendo. Al suo passaggio appaiono infatti parole, che diventano poi frasi e infine vita, perché è questo il tema del racconto.

Ad esempio, mentre due cavalli si affiancano, tesi, pronti allo scatto, a quel correre già iniziato stando fermi e che magari non accadrà mai, ecco apparire la storia di un desiderio, di pulsioni e pulsazioni all’unisono, di morsi strappati ai sensi, masticati e infine lasciati colare sul mento, il collo, fin sul petto.

Oppure dietro una fuga verso fondo campo sono apparse parole come ossigeno, bagno sotto una gelida cascata, meta appena raggiunta e vittoria a lungo sofferta; o ancora urlo a un cielo in tempesta e tuffo, tuffo ci sta, ma di quelli che apri le braccia e ti lasci cadere di schiena, nel mare.

E nel contropiede? Cosa dire di ciò che è scaturito dalla straordinaria opportunità del tutto, dalla volontà unita alla tenacia, dall’afferrare, stringere e mantenere? Aveva molto a che fare con il notare qualcuno a cui vuoi bene sorridere, e sentirne la risata.

Contatti come frasi, colpi come accenti, falli come punteggiature capaci di cambiare il significato di un periodo, gol che hanno definito paragrafi e il ritmo del racconto. 

Insomma, quello che non so e che continuo a non sapere è quali ruoli abbiano rivestito gli otto giocatori, quali regole abbiano dovuto rispettare e chi abbia vinto, ma di una cosa sono certa: nel cuore di ogni spettatore presente alla manifestazione, quel giorno si è materializzato un ricordo: per ognuno diverso nella trama, nei protagonisti e nelle vicissitudini ma non nel finale, che per tutti si è trattato come sempre di punto, ma stavolta era di color arancione.

Liberi tutti grazie a Oliviero Toscani

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Di Oliviero Toscani molto si conosce o si crede di sapere, convinzione radicata soprattutto in persone che, come me, son cresciute circondate dalle sue immagini. AIDS, anoressia, religioni, razzismo, guerre, società: le sue fotografie non son certo una novità, ma stavolta il protagonista è l’insieme. È come aver sempre osservato pezzi di puzzle singoli ora magistralmente uniti da cui è apparso il disegno completo: un bersaglio.

Concezione, visione, esecuzione e infine lo scatto dell’apparecchio fotografico: eccolo, il colpo. Ma non è un colpo che mira, piuttosto si stacca nella speranza di riuscire a cogliere, per cogliersi. Dicono la sua sia una ricerca ossessiva; io vi ho sì scorto un guerriero in lotta continua ma non contro se stesso, la mediocrità, l’estetica, il marketing, i maschi alfa o qualsiasi altra motivazione gli sia stata attribuita fino ad ora. Per lotta intendo semplicemente lo stato in cui si tende a stare nell’affrontare la solita questione di vita e di morte: l’esistenza.

E lui riesce a immortalarla con una presenza tale da liberarci tutti, offrendoci la possibilità di uscire dai nostri nascondigli e, finalmente, vedere. Osservare senza paura di essere acciuffati: quale dono! In pratica Toscani mira al centro al posto nostro. I suoi scatti sono tensione priva di intenzione: si colpiscono da soli. Capite? Lui ci dà subito la soluzione senza enigmi da risolvere; ci risparmia tempo e fatica, evitandoci anni di iniziazione, esperienze, sconfitte, rabbie e frustrazioni. Ovvio, questo non significa necessariamente farci un favore, ma se non altro ci dà la possibilità di capire tutto, subito. Basta volerlo. E la risposta è semplice: è lì da vedere, nella sua straordinaria complessità. 

Immaginare - Mostra di Oliviero Toscani presso il Max Museo a Chiasso, fino al 4 febbraio 2018.

Milano: quattro mostre in poche righe

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Klimt experience al MUDEC - Museo delle Culture: è il corrispettivo di ciò che è stato Cinquanta sfumature di grigio per il mondo dell’editoria, dove è riuscito ad accaparrarsi quella fascia di persone poco avvezze alla lettura, se non di riviste scandalistiche. Quindi ok, ci sta: Klimt proiettato è sempre meglio di nulla ma insomma: se appena appena avete già messo piede in un museo, anche no.

Toulouse-Lautrec a Palazzo Reale: da gustare, tutto, a poco a poco, con calma, tratto per tratto, immaginandone il gesto, l’attenzione. Un mondo rumoroso, dagli odori forti e dalle vite spremute trasformato in eleganza e bellezze sublimi, il tutto condito da bagliori di ironia sottile e sensualità dai colori che arrivano da lontano. Consigliatissima.

James Nachtwey - Memoria, a Palazzo Reale: laddove la parola uomo acquista un altro significato. Immagini crude ma di un’estetica pazzesca inchiodano lo sguardo a realtà dovute. Una vita dedicata alla memoria, dove il senso di responsabilità comune resta appiccicato addosso. E ce l'hai addosso. Addosso. Consigliatissima e, probabilmente, necessaria.

Sebastiao Salgado - Kuwait, un deserto in fiamme, alla Fondazione Forma per la Fotografia: strano considerare certe immagini consolanti, ma probabilmente è stato l’effetto Nachtwey. Avevo bisogno di un determinato tipo di sguardo, e qui l’ho trovato. Ha molto a che fare con l’idea di fiducia nella razza umana e, benché sporco di petrolio e fra pozzi in fiamme, c’era. Poi va be’, picchi di estetica a cui, per fortuna, non riuscirò ad abituarmi mai. Molto bella.

Milano: giochi di luce che in tutto questo guardare mi hanno accompagnata, brillando su uno strano silenzio. Da vivere, sempre.

2018: il mio discorso di inizio anno

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È come stare su una landa, un luogo, un lontano. Salire sul monte più alto, guardarsi attorno e pronunciarlo da lì, il discorso di inizio anno. Vedo le nuvole basse all’orizzonte, aperte quel tanto da lasciar passare la luce del sole, in formazione raggi. Raggi di ruote che girano all’infinito e mai sostano, per me e per altri che sono, o che verranno. Sotto c’è lei: la mia terra. È un territorio fatto di tentativi, sbagli, persone, storie, esperimenti, soddisfazioni, scoperte, ricordi e salti. Qualche fiume e un lago; un bagliore. Qualche collina e qualche albero. Una foresta abitata e un sentiero da raccogliere. Canti che arrivano da altrove. Mani che crescono nei prati. Petali di parole su cui soffiare. 

E poi tane abitate o pronte da occupare, notti in bottiglia e stelle nel camino. Del vento, gli occhi chiusi. Niente pale, vanghe o zappe, ma sogni che sanno dove attecchire; occorre fidarsi del loro vagare, o sparire. Un baratro di alito caldo che porta ghiaccio nel sangue. Il sole: quello negli occhi che trasforma il controluce in ombre da ritagliare, con le dita. Colori sparsi al suolo. Muschio sulla pelle per sapersi orientare; un becco rapace da ascoltare. Soffice afferrare di respiri trattenuti. L’odore delle zanzare, la lunghezza di una schiena. Tentazioni di lucidità appaganti da aspirare. La musica. Uno specchio per raggiungere il mare. Il sapore delle perle racchiuse attorno a momenti accantonati. Una casa. Un atelier. 

Terra dal giusto sapore, che nel sorso del brindisi osservo non per cambiare, ma per comprendere. E da qui pronuncio: “Del qui e del domani, del possibile e del non ci arriverò, che il risuonare dei nostri calici uniti giunga come lo schiocco di un bacio dietro l’orecchio di nuove intenzioni. E se di questo bere avrò di che ubriacarmi, che siano bollicine di esistenze in movimento verso l’alto, per solleticare volti, affinché il cielo possa sorridere, sorriderci e continuare a sorprenderci, sempre”.

Siate chi siete, e che 2018 sia.

Un giorno da guardiana alla Galleria PGI

Gli spazi dormienti hanno sempre esercitato un grande fascino su di me. Li considero tali quando sono privi di presenza umana, anche se so che le persone non sono responsabili dello stato di veglia di un luogo. 

Quel giorno avevo già la chiave in mano, occorreva aprire la porta facendo attenzione a non svegliare nessuno e così è stato, almeno in principio. Passare qualche istante nella Galleria PGI di Poschiavo, sola, mentre le opere d’arte appese si muovevano al lento ritmo del respiro dei giusti è stato meraviglioso. Son di quelle cose che ti fanno sentire lì, o forse anche solo sentire, non so. 

Accese le luci ho fatto un giro di saluto ai quadri esposti bisbigliando il numero corrispondente in segno di educazione. Non dovrei dirlo, ma i miei dipinti li ho accarezzati: stavano facendo un buon lavoro e quel gesto di affetto mi è uscito spontaneo.

Dicono esista una distanza ideale da cui ammirare un lavoro. In principio a me piace allontanarmi per poterlo osservare incastonato nello spazio, trasformato per un istante in un solitario infilato al dito del gesto. In seguito mi avvicino talmente tanto da riuscire, in quel gesto, a guardarci attraverso, riuscendo a scorgere una lampada accesa su una scrivania, un pennello intinto nei colori, la testa appoggiata alla mano in segno di stanchezza oppure, a volte, persino riuscendo a sentire la musica di sottofondo presente nell’atelier.

Tutto questo accadeva mentre il ticchettio dei radiatori aleggiava per i locali al ritmo di un tempo che sembrava docile e incalzante. Fuori il passaggio di una bicicletta, alcuni bambini intenti a giocare con la neve, e la luce del giorno che si stava chiudendo in un occhio strizzato, come a dirmi “stai attenta, adesso arriva il bello”.

E così è stato. Più il crepuscolo avanzava, più le opere esposte in Galleria trovavano spazio all’esterno, tanto che per un attimo in piazza è apparso il Cervino ed eleganti donne hanno ammiccato ai passanti. Come braccia protese sulla via di passaggio questo effetto di rifrazione ha portato all’interno persone le cui chiacchiere mi hanno accompagnata all’orario di chiusura.

E quale piacere a fine giornata abbassare gli interruttori e fermarsi nei locali ancora un istante, lasciando alla notte la possibilità di manifestarsi attraverso le ombre e i silenzi, di uno spazio che voltandomi a chiudere la porta son riuscita persino a scorgerne gli occhi, svegli.

A un anno dal mio andare a vivere in Engadina

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Me lo ero ripromessa: il giorno che Facebook mi riproporrà l'immagine di Artù nella pozzanghera scriverò di come si sta a vivere in montagna, ed eccola apparire stamane nella mia timeline. Un anno. È passato un anno esatto da quando andai in Engadina a vedere ciò che oggi è diventato il mio atelier, la cui firma del contratto avrebbe significato cambiamento con la C maiuscola. Quando scattai questa foto era pomeriggio inoltrato e avevo la febbre a 38,5; sentivo non essere influenza, probabilmente si trattava solo di paura. Lo stavo facendo veramente? Sì, dovevo.

Cosa posso dire ora del mio vivere in Engadina? È tanta roba, ma tanta davvero: occorre imparare a viverci perché tutto risulta enfatizzato, e per tutto intendo anche se stessi. Si è costantemente immersi nell’ascolto di un fuori e di un dentro che alla fine non se ne riconoscono nemmeno più i confini. È come se ti venisse sparato nelle vene un liquido di realtà aumentata che all’inizio pensi di non riuscire a gestire ma poi, per fortuna, si inizia a comprendere e a trovare il giusto modo di sopportare. Sì, perché a volte è davvero un sopportare. Sembra assurdo da dire, ma solo qui ho potuto sentire il dolore che la bellezza può provocare, ed è davvero un male fisico, capace di spezzare anche se cosa bene non so. Sovente mi è capitato di ritrovarmi a piangere di commozione guardando nel cielo giochi di luce incredibili e pensare "basta, è troppo"; ora, a quasi un anno di distanza, son riuscita se non altro a sostituirlo con un semplice “grazie”, anche se male riesce a farlo ancora. 

C’è da considerare inoltre che non ho distrazioni, quindi posso davvero immergermi in stati di pensiero ampi, dove ciò che prima magari rimaneva incastrato fra stress, traffico e difese ora non trova più ostacoli ed è libero di salire a galla, qualunque cosa sia. Diciamo che passato l’entusiasmo iniziale la primavera è stata un po’ più difficile, mentre ora non so se riuscirei già più a tornare. Me ne accorgo quando scendo in Ticino: sono sufficienti un paio di giorni per sentire come lì sia necessario alzare le difese per non venir travolti. Non ho ancora capito se stare nella natura renda più vulnerabili o insofferenti verso certe realtà quindi sì, io sono una di quelle a cui potrete dire “facile fare i filosofi in mezzo al nulla” e avreste ragione; in città non ci riuscirei, o almeno non nella mia e non ora. D’altronde ho scelto quell’altopiano proprio per lo stato in cui è sempre riuscito a portarmi, condizione assolutamente necessaria per la strada che ho deciso di seguire.

Che poi io sia una persona estremamente fortunata ad essermi potuta permettere di sperimentare ciò non lo metterò mai in dubbio ma, visto che questa è la mia storia, cerco almeno di viverla appieno. C’è comunque ancora da aggiungere che lassù la solitudine è una costante, le condizioni meteorologiche possono essere impietose e la montagna deve assolutamente piacere, ma per fortuna conosco persone meravigliose con cui è possibile scambiarsi calore umano sia attraverso un tavolo che via web e, quando la fame di civiltà si fa sentire, in un attimo si può essere a Zurigo, Lugano o Milano. In pratica nell’anno appena trascorso non sono mai stata così felice e nel contempo non ho mai sofferto così tanto in vita mia ma, se proprio dovessi riassumere quest’esperienza in una parola non avrei dubbi e userei ossigeno, anche se in fin dei conti null’altro è se non quella cosa chiamata opportunità, o a volte anche semplicemente vita.

Nevicata mattutina

Non è solo per l'intensità delle stagioni, per la bellezza dei luoghi, per la luce straordinaria e per tutto quanto un paesaggio montano simile riesca ad offrire. È soprattutto per le possibilità di vivere istanti senza distrazioni, in ascolto, in completo abbandono, in piena fiducia. 

Nel video i pensieri di stamane (da ascoltare):

Nevicata mattutina, 19 novembre 2017

È assenza e somma di colori, è un contare quanti in quell’istante, su quella traiettoria, da dove ti trovi a dove potresti invece stare.

È un non rumore, un sciogliersi sulla pelle, affondare nel presente e sentire il cielo basso sulla testa, vicino le spalle, dietro la nuca, nell’esatto punto d’accesso ai brividi del mondo.

È un osservare la continua composizione che cambia, chiudere un occhio, l’altro, ed entrambi, per lasciare che a disegnare il paesaggio non sia solo la neve, ma anche le sensazioni che fiocco dopo fiocco, ondeggiando, si adagiano al suolo, diventando manto.

Sankt Moritz addormentata

Della bassa stagione mi piace la calma, il silenzio, l'indefinito clima, gli sguardi delle rare genti e, soprattutto, le dame dormienti. Sono gli hotel, le case, le vie e tutto quanto in quel momento riposa abbandonato nel suo stesso respiro. Osservarli in quegli istanti permette di coglierne l'essenza, la personalità, il carattere e la bellezza vera, quella propria della vulnerabilità. 

Stamane son salita in paese per ascoltare il battito lento della dama Sankt Moritz, di cui qui ne riporto un omaggio (video da ascoltare).

Sankt Moritz addormentata (testo)

Eccola, dorme. Il rossetto aperto sul comò, vicino al bicchiere di gin tonic ormai vuoto. 
Un lenzuolo copre lo specchio.
Nuda, distesa sul manto di morbida terra, il cui profumo avvolge i sensi.
E respira.
Il soffio del suo vivere attraversa vie come dita fra i capelli.
E sogna.
Un leggero movimento delle palpebre ne tradisce i desideri.
Allungo una mano e ne sfioro i confini.
È morbida, calda.
Incontro uno sguardo, ci sorridiamo in silenzio.
La dama riposa.
La dama aleggia nel sonno del suo divenire, su labbra che presto torneranno a desiderare, che presto torneranno ad apparire.