Nei giorni scorsi mi sono piazzata a casa dei miei genitori giusto così, per far finta di essere in vacanza, anche se un po’ lo sono stata veramente. Non è il luogo in cui sono cresciuta e non vi ho mai abitato, per cui niente “ah quel posto mi ricorda quella cosa lì” o intraprendere quei viaggi nel tempo che alla fine non sai mai dove ti portino veramente. Mi attendeva solo roba tranquilla: libri, tv, cane, lago, champagne (visto il periodo) e grissini (visto il periodo 2). Punto. Finita lì. Fino a quando non mi è venuta fame davvero e ho aperto l’armadio delle pentole. Ricordate i camini di Harry Potter? Ecco, qui non mi è servita la polvere volante, saltarci dentro e pronunciare alcuna destinazione: in un attimo sono stata proiettata nella cucina di legno verde di trent’anni fa, davanti al cassetto ad angolo che le conteneva. Una vetrina girevole di trecentosessanta gradi: una meraviglia! Un’esposizione di preziosi che se Truman Capote avesse visto, Colazione da Tiffany l’avrebbe ambientato lì.
C’era quella bassa e larga con il coperchio pesante e pomello d’oro (zecchino, ci scommetto) usata per le cotture lente, quelle che permettevano la modificazione cristallina di spezzatini e brasati da cui estrarre piatti da incastonare. Quella della stessa serie ma più stretta e alta, dove tonno e piselli o fleischkase e cipolle subivano la metamorfosi del monocristallino per offrire pietanze color rubino. Poi c’era quella del puré, media dal manico nero, quella del risotto, alta e larga con manici e coperchio in acciaio che ovunque la afferravi ti scottavi, poi quella delle uova sode, alta e piccolina con un pizzico d’aceto per fermarne l’apertura un po’ come si fa con lo smalto sui collant smagliati quando non si ha il ricambio. Che dire poi di quella altissima con i manici neri del mezzo chilo di pasta? Ah che gioia vederla apparire sul bancone! E di quella stretta e lunga con il doppiofondo a buchi usata solo un paio di volte? Vi prese vita un super gnoccone che una volta tagliato portava in superficie filoni d’argento a cui noi, felici esploratori, restava solo il compito di estrarre e immagazzinare.
Tutto questo comunque nulla poteva in confronto a lei, al cui cospetto persino il diamante blu della corona bavarese si sarebbe inchinato: la teglia rossa! Dicono che lo stesso Pininfarina si ispirò a lei per progettare la Ferrari. Acciaio puro smaltato rosso all’esterno, bianchi gli interni. Aerodinamica spaziale per permettere il perfetto circolo dell’aria nel forno, attraverso le cui nubi di fragranza sembra qualcuno vi abbia visto l’immagine di Cristo (all’ultima cena, ovvio). L’eleganza e maestria con cui riusciva a parcheggiare anche nei laterali più stretti, fra un centrotavola e l’altro, ha sempre ammutolito i presenti, silenzio per altro necessario ad accogliere degnamente il pilota eccelso al volante di tale bolide. Mormorii scesi, motore spento e attenzione alle stelle, ora la portiera poteva aprirsi: tacco a spillo bianco, gamba nuda fino alla coscia. Ne scendeva sempre lei, l’unica in grado di valorizzare appieno la tecnologia offerta dalla teglia. Fiera e maliziosa sui suoi tacchi da dieci centimetri (almeno) lanciava uno sguardo a destra, uno a sinistra, in attesa che i vapori fuoriusciti dalla metropolitana ne riuscissero ad alzare il vaporoso vestito: “oooohhh”, ed ecco la Marilyn Monroe della mia infanzia che si adagiava delicatamente nel piatto. Sono sicura che se Andy Warhol avesse assaggiato questo piatto gli avrebbe dedicato una serie di serigrafie; l’icona indiscussa degli anni ‘70: le lasagne di mamma.
Pubblicato su Timmagazine